Uno studio su Giorgio de Chirico e un appello alle Istituzioni e alla Fondazione per il recupero delle oltre 500 opere del Maestro ora depositate in un caveau.

di Mario URSINO

A Proposito di un recente volume sul pensiero e sulla pittura metafisica di Giorgio de Chirico, e della osservazione sulla necessità  del destino delle opere del maestro.

E’ apparso nelle librerie un ponderoso studio sull’arte di Giorgio de Chirico, incentrato soprattutto sul pensiero filosofico dell’artista, di derivazione nietzchiana e schopenaueriana, il che non è una novità per gli studiosi della pittura del pictor optimus (ricordo, a titolo di esempio, gli studi della compianta amica, Marisa Volpi professoressa emerita di Storia dell’Arte Contemporanea alla Sapienza, Università di Roma: De Chirico e i filosofi della Visione, 1988,  Nietzche e De Chirico, 1990, e ancora sul filosofo tedesco e de Chirico, in Ombre e Prospettive, 2008).

L’autore del volume in riferimento è Riccardo Dottori, uno stimato professore emerito

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di Ermeneutica filosofica dell’Università di Tor Vergata a Roma, che da diversi anni collabora con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico per contributi saggistici, e per essere uno dei componenti del Consiglio Scientifico di detta Fondazione, insieme ad altri 8 illustri studiosi  del grande maestro della Metafisica (il lettore può vedere l’elenco dei nomi sul sito web della Fondazione). E l’ultimo grosso lavoro del colendissimo professor Dottori si intitola appunto Immagini metafisiche, per i tipi dell’editrice “La Nave di Teseo”, 2018, pag. 558 [fig. 1] (cfr. “Corriere della Sera”, 6 gennaio 2019). Si tratta di un accurato studio comparato tra le affermazioni e la speculazione filosofica dei due grandi pensatori tedeschi, Nietzsche e Schopenauer, e le parallele assimilazioni dechirichiane, come si legge nel capitolo introduttivo di codesto volume; l’autore poi passa ad esaminare in dodici capitoli circa un centinaio di dipinti del maestro, tra quelli maggiormente noti, eseguiti da de Chirico tra il 1909 e il 1924, includendo verso la fine, un’opera tra le più enigmatiche del  maestro,

I bagni misteriosi del 1935. Questo singolare tema di “invenzione” (così definito da de Chirico) è un dipinto di una fortunata serie, ed è stato studiato, come è noto, per primo da Maurizio Fagiolo, e poi dal sottoscritto negli anni Novanta. Dottori nel primo capitolo tratta delle origini (filosofiche) della pittura metafisica, e si diffonde anche sulla confutazione di altri studiosi, ovvero se l’idea della pittura metafisica sia nata nel 1909 a Milano, con l’ausilio del pensiero del fratello Alberto Savinio, oppure a Firenze nel 1910, in Piazza S. Croce, come più volte ha affermato de Chirico non solo nelle sue famose Memorie del 1945, ma anche in seguito in articoli e varie interviste. Insomma si tratta a ben vedere di sottigliezze e polemiche tra studiosi e la Fondazione, sulla interpretazione del giorno e mese di una lettera  del 1910 di de Chirico, inviata ad un amico tedesco, che a mio parere, non aggiungono e non tolgono nulla alla grandezza del nostro grande maestro. De Chirico, che è l’artista che più amo tra i grandi del Novecento, e che ho sempre amato sin da quando ero studente, va compreso, a mio modesto avviso, attraverso la conoscenza di tutte le sue opere e i suoi scritti, nella loro totalità, sia pure tenendo ben distinte le sue diverse stagioni, avendo l’artista sempre dipinto fino a tarda età. Sarà pure una semplificazione, la mia, ma per me è sufficiente così.

Ben vengano comunque gli approfondimenti fluviali, ermeneutici-filosofici, come nel caso in specie, atti a declinare il mistero della pittura metafisica. E qui mi fermo, perché certamente il professor Dottori non abbisogna della mia trascurabile recensione.

L’occasione, però (si parva licet), non mi può esimere da ricordare il  pensiero che mi si

fissò nella mente in anni lontani, nel 1990, allorquando, dopo la scomparsa della vedova del maestro, la signora Isabella Pakszwer de Chirico, al sottoscritto fu ufficialmente conferito l’incarico, quale funzionario della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, di procedere alla individuazione e inventariazione dell’immenso patrimonio di opere d’arte, fra dipinti, sculture, disegni, allora tutti conservarti nella grande casa del maestro che si affaccia sulla famosissima Piazza di Spagna, oggi divenuta ad alta intensità di presenze turistiche, e quindi attraversabile a tutte le ore con molto fastidio e difficoltà; tanto da domandarmi spesso cosa direbbe oggi de Chirico di fronte a questo fenomenale afflusso di massa, lui così fiero da affermare che abitava al centro di Roma, che di conseguenza, egli considerava il centro del mondo.

Di questa fierezza metafisica sono stato oculare testimone, agli inizi degli anni Settanta, quando ero ancora studente, allorché, attraversando verso mezzogiorno un’ancora tranquilla, elegante Piazza di Spagna, vidi il maestro fermo, immobile come le sue statue metafisiche, all’angolo di Via Condotti, con la testa rivolta verso l’alto forse mentre osservava le finestre al piano alto del suo appartamento [fig. 2], e sede anche del suo studio [figg. 3-4]

nell’antico Palazzetto de’ Borgognoni [fig. 5] a pochi passi dallo storico Caffè Greco, [fig. 6] dove, come è noto, egli soleva prendere il suo aperitivo [fig. 7].

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Ma voglio ancora ricordare il mio primo contatto nel 1990, con quella quantità di opere d’arte, tutte segnate dalla mia mano sul supporto di ciascuna di esse con un numero di inventario in rosso e cerchiato anche in rosso, di cui uno scrupoloso notaio annotava con cura titolo, tecnica, misure, date, firme ed eventuali annotazioni sul retro delle opere (su tela, cartone, raramente su tavola, se ricordo bene, o carta, in caso di disegni). Per le sculture, in numero relativamente più basso, si dovevano individuare timbri di fusione, date, firme e misure; altra ingente quantità era costituita da mini sculture, multipli e incisioni litografiche. Non è la prima volta che racconto di tutto questo mio lungo lavoro durato circa un anno. I lettori di questa rivista, e del nostro sito web, lo sanno. Successivamente, mi sono dedicato alla didattica nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna sull’opera e la personalità del maestro (studi che avevo iniziato a coltivare, come già detto, precedentemente per mio personale interessamento) e inoltre con insegnamento alla Sapienza, Università di Roma, e alla LUMSA sull’artista. Su queste opere ereditate dalla Fondazione, in particolare, ho organizzato diverse mostre in Italia e all’estero, e ovviamente, tra quelle più significative e di maggior successo di pubblico e di critica, è stata De Chirico e il Museo, con oltre cento opere, nella “mia” Galleria Nazionale d’Arte Moderna, tra il 2008-2009 [fig. 8].

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Ma ciò che mi parve subito come la cosa più importante, sin dagli anni Novanta, per la salvaguardia, la conservazione, la valorizzazione di queste centinaia e centinaia di opere, conservate dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, che dopo l’inventario, furono messe in sicurezza in un caveau alla periferia di Roma, ove si trovano ancora oggi, fatto salvo l’esiguo numero esposto nella casa-museo di piazza di Spagna [fig. 9],

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diciamo approssimativamente intorno al 10 per cento delle complessive (allora oltre 600, oggi dedotti i lasciti e donazioni ex testamento della vedova, ne risulterebbero ancora ben 554); la cosa più importante, dicevo, sarebbe stata quella di fondare un museo monografico dedicato a Giorgio de Chirico sull’esempio del Museo Picasso a Parigi (fortunatissimo Picasso ne vanta altri sei solo in Europa); l’ho scritto e l’ho ridetto tantissime volte, a partire da un mio lontano articolo che apparve su “Il Giornale dell’Arte” nell’aprile del 1994.  Ho ribadito questa necessità in altri articoli e interviste, e ogni volta, nei cinque Convegni annuali che ho organizzati tra il 2014 e il 2018, dell’Associazione Amici di Giorgio de Chirico, da me fondata nel 2013, insieme ad oltre cento  soci, tra colleghi storici dell’arte, docenti universitari, famosi architetti italiani (Portoghesi, Purini e il compianto Giorgio Muratori), collezionisti, avvocati con la passione dell’arte (il lettore può leggere tutti i nomi sul nostro sito web). I cinque convegni dedicati al grande maestro si sono tenuti in prestigiose sedi istituzionali: due volte al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (2014 e 2015), al Museo Nazionale degli Strumenti Musicali (2016), all’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte (2017), all’Accademia di Belle Arti di Roma (2018); in quest’ultimo abbiamo avuto tra i relatori anche l’attuale direttore della nostra rivista About Art on line, e come ospite d’onore, il pittore e scrittore Ruggero Savinio, nipote di de Chirico, e figlio del fratello del maestro, Alberto Savinio, anch’egli grande artista, pittore, scrittore e musicista.

In detti Convegni, di volta in volta, sono stati illustrati da noti studiosi i diversi aspetti dell’arte dechirichiana, dal rapporto fondamentale che de Chirico aveva stabilito con lo studio degli antichi maestri, alla sua notevole attività come scenografo di opere musicali, a quelli relativi alla letteratura e alla filosofia dei suoi scritti sull’arte e sulla pittura metafisica. Questo in sintesi è stato il nostro lavoro negli ultimi cinque anni.

Purtroppo, devo ammettere, che la nostra attività è stata una “vox clamans in deserto.

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Perché dico questo? Per il semplice fatto dell’indifferenza mostrata nel corso di questi anni da rappresentanti di soggetti istituzionali, ministeriali e comunali, con i quali ho interloquito senza successo, al fine di ottenere la disponibilità di uno dei  diversi spazi architettonici inutilizzati e abbandonati nel centro di Roma; a titolo di esempio, tra gli ultimi edifici da me individuati vi è quello relativo a una parte  delle ex Scuderie della neoclassica Villa Torlonia sulla via Nomentana (che di per sé è già un centro museale di tutto rispetto), ma attualmente quella porzione dello storico complesso è incredibilmente abbandonata e degradata, poiché è adibita a deposito di attrezzi dell’AMA! [fig. 10]. Ho cercato invano di essere ricevuto dal Soprintendente ai Musei Comunali di Roma, per sottoporre un progetto di restauro ai fini museali di codesto spazio; un progetto generosamente offerto alla Nostra Associazione dal noto architetto, Professor Franco Purini [fig. 11-12], nostro autorevole socio.

fig 11 progetto Purini
fig 12 progetto Purini

Niente da fare. Silenzio assoluto. Un caso di clamorosa evidente indifferenza nei confronti dell’opera del grande maestro de Chirico, senza capire che un museo monografico dell’artista in tale complesso sarebbe anche una sicura, maggiore attrattiva per i visitatori della storica Villa Torlonia.

 

 

 

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Ho voluto riassumere ancora una volta tutto quanto sopra descritto, per comunicare ai lettori della nostra rivista e ai soci dell’Associazione, che quest’anno, purtroppo, rinuncio ad organizzare il sesto Convegno, non certo per mancanza d’argomento, bensì per lo sconforto di non aver riscontrato un minimo di concreto interessamento alle nostre iniziative per rendere visibili e dare un futuro a tutte quelle opere detenute dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico nell’oscurità di un caveau di sicurezza da oltre un ventennio; opere che escono solo saltuariamente in piccoli nuclei per mostre in maggioranza in Comuni periferici, che le richiedono per loro prestigio, se non anche per attrazione turistica (v. Osimo, Spoleto, Campobasso, Conversano, etc), sia pure presentate da stimati studiosi. Ed ecco perché sono partito in questa nota, come in un cahier de doleance, dalla pubblicazione del vistoso studio del professor Riccardo Dottori, per domandarmi se gli illustri componenti del Comitato Scientifico della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, che profondono i loro studi sulla rivista Metafisica. Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, si siano mai chiesti, nelle loro riunioni, se sia giusto continuare a tenere recluso quel grande patrimonio di opere d’arte, e se ad esse potrà mai essere assicurato un futuro oggettivo di visibilità al  pubblico e a tutti gli studiosi del maestro, al di là della Fondazione stessa e dei suoi componenti, che non credo abbiano il dono dell’eternità, come ciascuno di noi.

E’ lecito domandarsi questo?

Le opere d’arte sono un patrimonio spirituale dell’umanità, sono però oggetti materiali fragili, e come tali, sia che appartengano alle istituzioni pubbliche che alle raccolte private, ancorché di pubblico interesse, come in questo caso, devono essere tutelate; e qui va ricordato che solo una parte di esse è stata sottoposta a vincolo storico-artistico (non esclusa la mia personale pressione a questo fine sugli organi ministeriali a ciò preposti, quando rivestivo la carica di Ispettore Onorario sull’arte contemporanea tra il 2012-2015). Ed è per questo che continuo a sostenere che codeste opere devono essere sottratte all’oblio di una conservazione al buio, per essere finalmente tutte insieme visibili e “fruibili” (come oggi si dice con questo termine orribile), e trasferite in un museo ad hoc per un futuro degno di studio e conservazione.  E’ fin troppo noto quanto importanti collezionisti stranieri e italiani, giunti alla maturità della loro vita, consegnano le loro raccolte alla pubblica utilità per conservazione e studio per le future generazioni (sia pure in loro nome, come hanno fatto a Roma, in tempi recentissimi i coniugi Claudio ed Elena Cerasi, raffinati collezionisti di opere contemporanee, recuperando, a loro spese, gli spazi dell’ex Ufficio di Igiene del Comune di Roma del 1929, da lunghi anni in grave stato di abbandono, recuperandolo prima con un accurato criterio filologico, e poi destinandolo a permanente sede museale con buona parte della loro collezione, incentrata soprattutto con opere sceltissime della Scuola Romana; un encomiabile ripristino di eccellenza anche per la Via Merulana e per l’arte offerta al pubblico in contesto divenuto di rara eleganza (si veda il link https://www.aboutartonline.com/il-risorto-palazzo-merulana-e-la-collezione-cerasi-ununione-di-mecenatismo-e-collezionismo-artistico/ del mio articolo apparso su questa rivista nel giugno 2018).

E’ una lezione, questa, su cui occorre riflettere e che ci fa capire che tutto ciò che possediamo lo abbiamo semplicemente e temporaneamente in consegna, ed è una reale necessità, se non addirittura un dovere, stabilire una successione quando si posseggono cose di valore, sia materiali che spirituali,  come ci hanno insegnato i nostri avi, con il loro buon senso, e senza l’ausilio dei filosofi di professione.

Ci ha mai pensato il Presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, con i suoi componenti  del Comitato Scientifico?

Mario URSINO     Roma Gennaio 2019