Va all’asta la problematica ‘Giuditta-Tolosa’. Ne parla Stefania Macioce, esperta di Caravaggio

di Stefania MACIOCE

Stefania Macioce è docente ordinario di Storia dell’Arte Moderna alla Sapienza Università di Roma, dove si è laureata con Maurizio Calvesi con una tesi sulla pittura Ferrarse del Quattocento; poi i suoi studi e le sue ricerche si sono concentrati in particolare sulla pittura a Roma negli anni a cavallo tra la fine del Cinque, gli inizi del Seicento ed oltre, curando volumi sulla figura e l’opera di Caravaggio e del suo ambiente che la rendono tra gli esperti più accreditati in questo campo. Fondamentali a questo riguardo sono i volumi Michelangelo Merisi da Caravaggio: fonti e documenti 1532-1724, per Ugo Bozzi, Roma 2003, edizione ampliata ed aggiornata fino a raccogliere circa 1.600 documenti in Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1875, II ed. corretta, integrata e aggiornata, Roma Ugo Bozzi Editore, 2010. Ha partecipato al convegno Attorno a Caravaggio tenutesi alla Pinacoteca di Brera, in cui si analizzava il dipinto oggetto di questo saggio. Numerose le pubblicazioni, i convegni e gli eventi tenuti in Italia e all’estero di cui non è possibile dare conto in questa sede.

Andrà all’asta il 27 giugno a Tolosa come opera di Caravaggio con una valutazione di circa 150 milioni di dollari, la Giuditta e Oloferne,

La Giuditta “Tolosa” e l’antiquario Eric Turquin (da la Repubblica on line)

dipinto rintracciato proprio a Tolosa nel 2014. In occasione dell’esposizione del quadro alla Galleria Colnaghi di Londra, a detta di Eric Turquin, l’esperto francese, già direttore del dipartimento Maestri antichi di Sotheby’s che ne ha seguito il restauro, la paternità dell’opera è più che certa:

“L’analisi a raggi x dimostra che originariamente Giuditta volgeva lo sguardo verso Oloferne, stava guardando ciò che aveva fatto”,

proprio come nella prima versione del soggetto dipinta da Caravaggio nel 1602, capolavoro attualmente a Roma nella Galleria Nazionale di Palazzo Barberini.

Giuditta ed Oloferne (Palazzo Barberini, sx – versione “Tolosa” dx)

L’autenticità della tela (m. 1,75 x 1,44) descritta in due lettere del 1607 al duca di Mantova, nel testamento in data 1617 del pittore e mercante d’arte Louis Finson e in un un inventario del suo socio Abraham Vinck, redatto ad Anversa nel 1619, è stata oggetto di un serrato dibattito critico sulla pertinenza dell’attribuzione a Caravaggio, o al pittore fiammingo Louis Finson che a Napoli aveva un’affermata bottega e che, come risulta dalle fonti, deteneva alcune opere del pittore lombardo.

Il dipinto in questione, che ha evidenti analogie compositive e iconografiche con quello già noto del medesimo soggetto di mano di Finson, viene indicato come un’altra versione della Giuditta e Oloferne già Coppi ora a Palazzo Barberini. Se, come alcuni sostengono, si trattasse di una copia da Caravaggio, ciò rientrerebbe facilmente nelle modalità della bottega di Finson, pittore noto, ma anche mercante d’arte che, per ovvi motivi commerciali, potrebbe aver fatto eseguire da uno specialista diverse copie anche di altri autori, per proporle al facoltoso mercato di Bruges e Amsterdam. Il dipinto, secondo il fortunato possessore  Turquin, sarebbe stato modificato solo in un secondo momento, una metodica che nessun copista avrebbe perseguito men che meno per alterare la direzione dello sguardo del personaggio principale, se fosse una copia conclude Turquin: «il copista sarebbe un genio».

Giuditta decapita Oloferne (Louis Finson, sx; versione “Tolosa” dx)

Nel 2016 in occasione dell’incontro a porte chiuse Attorno a Caravaggio tenutosi nella Pinacoteca di Brera di Milano, ma in precedenza avevo affrontato la questione anche al Metropolitan di New York, ho avuto modo di rianalizzare e ridiscutere il dipinto, esposto a fianco di altre opere di Finson, tra cui la Giuditta e Oloferne di proprietà Intesa Sanpaolo. In quell’occasione le analisi condotte sulla tela hanno posto in luce dati di sicuro interesse circa i pigmenti, i cambi di impostazione delle figure, risultato di una diagnostica di qualità eccellente che ha rivelato all’interno della composizione dati assai contrastanti tanto che la lettura complessiva del quadro nelle sue fasi di realizzazione, è risultata disomogenea.

Fui colpita in particolare dalla presenza, nell’abito di Giuditta, di pigmento blu,

molto in uso nei paesi nordici dove il nero era di  difficoltosa reperibilità; il blu,  che Caravaggio  considerava il «veleno delle tinte», si riscontra solo in alcune opere del pittore utilizzato con parsimonia e ciò del resto è abbastanza in linea con la sua tavolozza notoriamente basata sulle terre. Non voglio entrare nel merito di questo aspetto che ho trattato più diffusamente in altra sede, né contestare o approvare i risultati di quella giornata che si concluse all’insegna di ragionevoli interrogativi e di una difformità di pareri.

Considerando ora un pubblico più ampio rispetto a quello pur sempre ristretto degli specialisti, quando si parla di Caravaggio non si può non constatare il suo ruolo primario di vedette incontrastata di mostre, libri, romanzi, convegni, dibattiti, film, fiction e pubblicità. Sono moltissimi gli estimatori della sua arte. Le opere di Caravaggio sono note più di altre al pubblico e tutti coloro che hanno avuto modo di vederle ritengono di comprenderle. Solitamente si tratta però di opinioni soggettive assolutamente lecite, ma non sempre attinenti alla reale complessità del grande  maestro lombardo.

In modo analogo e altrettanto legittimo sono in tanti a voler scrivere su Caravaggio,

attratti dalla sua pittura coinvolgente e soprattutto dalla sua vicenda biografica. Si pensi che dalla mostra del 2010 la bibliografia sul pittore è aumentata di più di ottocento titoli che vanno ad aggiungersi alle migliaia di quelli precedenti. La pittura del grande lombardo, la cui geniale modernità è stata oggetto di una non trascurabile operazione mediatica, rappresenta poi un fenomeno oggi molto à la page che qualche studioso con divertente ironia definisce un po’ cheap. Tra i ricercatori esistono schieramenti, anche storicizzati che, favorevoli o no alle diverse attribuzioni, alimentano un dibattito la cui travalicante espansione determina una sorta di coazione a ripetere. Nel caso della Giuditta di Tolosa il partito degli scettici appare più ampio rispetto ai convinti sostenitori della sua autografia. Non vorrei affrontare nuovamente la questione, che mi vide sin da subito alquanto perplessa, non certo per evitare la consueta pungente virulenza tipica delle critiche di argomento caravaggesco, ma perché attratta da un’angolazione forse un po’ scontata che, tuttavia, ha una sua intrinseca validità dettata dal desiderio di oggettività proprio di uno storico dell’arte.

Stabilire l’autografia di un’opera è davvero procedimento complesso.

Con l’avanzare degli studi la diagnostica ha acquisito un tale livello di compiutezza da permettere considerazioni fondate sul piano della conservazione e delle caratteristiche tecniche di un dipinto. Si tratta di vere e proprie acquisizioni, come nel caso della mostra curata da Rossella Vodret nel Palazzo Reale di Milano. Ma anche in questo caso, come già avvenne negli anni ’90 in occasione della mostra Come nascono i capolavori coordinata da Mina Gregori, i risultati  non sono esaustivi, non possono e non intendono esserlo poiché, procedendo per gradi, essi ricostruiscono con attitudine scientifica tasselli di varia natura e genere di estrema utilità per l’analisi di un dipinto.

È pur vero che oggi si sa molto di più, ma stabilire in termini perentori e incontrovertibili i parametri entro cui collocare la tecnica pittorica esclusiva di Caravaggio si è dimostrato essere un’altra cosa. Si potrebbe forse auspicare un’indagine analoga per la produzione pittorica dei suoi contemporanei e il panorama risulterebbe alquanto vasto. Ma, ove possibile, anche in tal caso proprio nessuno potrebbe risalire alle scelte operate dal pittore in un determinato momento e in corso d’opera. Abbiamo dati indiscutibilmente confrontabili, ma la selezione dei tempi, i criteri variabili della composizione, le scelte dei pigmenti come delle tele, possono differire in base a valutazioni soggettive o, a seconda delle circostanze a volte anche fortuite, legarsi al contesto e alla reperibilità dei materiali.

Come i più autorevoli studiosi confermano, la diagnostica è un aspetto della ricerca imprescindibile,

ma non può e non deve essere avulso da una valutazione complessiva. A meno che tali analisi permettano di ricondurre indubitabilmente  la datazione di un’opera ad una cronologia diversa, magari di molto posteriore rispetto a quella prevista, il che aprirebbe un altro dibattito.

Nel passato cosa ha portato verso l’unanimità dei consensi su alcuni dipinti problematici di Caravaggio? Un insieme di fattori: la provenienza, ad esempio; la concordanza con le fonti, con gli inventari, una somma di elementi documentali che hanno permesso  di ricostruire l’iter di un’opera nel tempo dal momento della sua ideazione. Questo è uno degli aspetti fondamentali, ma anche in questo caso non determinante nel senso che, a titolo di esempio, in molti inventari secenteschi come noto, si attribuivano a Caravaggio opere condotte nel suo stile. Diverse collezioni risultano affollate dai suoi quadri  menzionati negli inventari a volte anche con misure e commenti. Si tratta sovente  di opere non più reperibili nella collezione di partenza alienate o passate in altre raccolte, addirittura perse.

Dipinti dai caratteri pittorici caravaggeschi non sono automaticamente autografi e ritrovarne alcune concordanti con i dati inventariali non ne determina di fatto l’autenticità.

Cruciale è sempre e per fortuna il ruolo dello storico dell’arte, la sua formazione,

i suoi parametri critici, la sua capacità e la sua competenza. La perizia di un storico dell’arte che sia realmente un conoscitore si basa su un insieme di fattori culturali legati in modo precipuo alla sua esperienza professionale che è anche sempre quantitativa. Il cosiddetto ‘occhio’ non è soltanto una dote innata quasi un vezzo, ma appartiene a chi ha visto tante opere e le ha analizzate a fondo maturando la capacità di confronti e di giudizio, attraverso l’assimilazione visiva di un patrimonio storico artistico di cui si conosce il contesto storico. Lo stile di un pittore, il suo modo comporre, il suo pensiero, hanno caratteristiche precise, anche se mutevoli nel tempo. E un po’ come accade nella calligrafia che, pur cambiando e di molto nelle fasi della vita, mantiene intatti nel tempo i caratteri sorgivi.  Ho voluto riepilogare in modo sintetico, esplicativo e probabilmente ovvio l’insieme dei fattori principali, su cui tradizionalmente andrebbe fondato un giudizio critico.

Nel caso del bel dipinto di Tolosa, un documento pittorico di estremo interesse nonostante le analisi sapientemente esperite, c’è un fattore complessivo che lo rende problematico, troppo problematico. La figura di Giuditta sulla destra è notevole: essa potrebbe sì, ad una prima visione, essere una ulteriore versione eseguita da Caravaggio, dalla prima formidabile ideazione della Giuditta romana. Eseguita a Napoli, ragionevolmente nella bottega di Finson, questa Giuditta successiva al quadro  Coppi, risulta infatti tipologicamente affiancabile alla Salomè di Londra ed è riconducibile ad un contesto cronologico napoletano, anche per la sua evidente dipendenza dalla nota versione di Finson. L’eroina biblica del quadro tolosano si rivolge direttamente a chi guarda mettendo in atto una consolidata modalità suggerita da Alberti, che invitava i pittori a inserire, all’interno di una composizione, la figura dell’ admonitor, ovvero colui che sembra invitare chi guarda a compartecipare allo spazio pittorico. È una modalità molto frequente a partire dal Rinascimento.

Nell’ambito della produzione napoletana, Caravaggio non sembra aver formulato figure così esplicitamente coinvolgenti.

Anzi, c’è una progressiva interiorizzazione dei personaggi che agiscono lo spazio pittorico ove la nitida e aderente rappresentazione della realtà crea al contempo una distanza somma, una coltre di desolato silenzio rispetto allo spettatore. Giuditta nel dipinto romano è consapevole dell’azione che sta attuando, ma la sua forza è guidata dalla grazia divina sovrumana e dunque salvifica. Molte delle incisioni che il pittore inseriva sull’imprimitura dei dipinti nella sua produzione romana,  si concentrano nel quadro proprio al centro della tela, laddove le possenti braccia dell’eroina, rese forti dall’azione della grazia, compiono l’azione. È evidente che questo è il punto focale della narrazione. Giuditta presa coscienza, agisce in base a un ordine divino: tutto ciò sostiene una verità di fede che Caravaggio spiega.

La Giuditta di Tolosa ha subìto un non trascurabile cambiamento, inizialmente come dimostra l’analisi radiografica aderisce al modello romano, poi cambia.

Perché? Questa ‘rinnovata’ Giuditta contrappone perplessità alla concentrazione leggibile della Giuditta romana, non ha alcuna forza né la riceve, ma si limita a eseguire un’azione  quasi senza partecipazione, solo perché incalzata dalla vecchia e troppo rugosa Abra. È uno scenario banalizzato, la ripetizione di un cliché che oltretutto esclude il palese intervento della Grazia divina, ma perché Caravaggio avrebbe dovuto fare proprio qui quello che non ha mai fatto? Si potrebbe chiamare in causa la spinosa questione delle repliche, dei doppi. E infatti chi scrive si pone i medesimi interrogativi per soggetti analoghi riferiti al pittore, ma molto diversi sul piano qualitativo.

La bella Giuditta del dipinto di Tolosa è una giovane donna in abito vedovile, la cui avvenenza  ripropone il topos antico della contrapposizione con la ripugnante vecchiezza della serva, un topos tradotto qui secondo i canoni della scena di genere. L’azione senza forza dell’eroina biblica diviene poi  quasi marginale e inspiegabile, un elemento narrativo cui si oppone lo spasmo di un banalizzato Oloferne. Questi è ritratto in una verosimile contorsione data dal terribile dolore. Niente altro.

Giuditta decapita Oloferne, part. (versione “Tolosa sx; Palazzo Barberini dx)

Anche in questo caso non c’è relazione con il quadro romano dove emerge una sapientissima ripresa del Laoconte, colto nell’attimo della morte, già leggibile nei suoi occhi spenti, cui si contrappone l’ultimo spasmo vitale del corpo.

C’è, dunque, una sorta di cesura tra i due dipinti che crea contesti psicologici e modalità esecutive differenti:

in uno, quello di Tolosa, la narrazione è più o meno veristica; nell’altro si palesa il modo totalizzante di pensare l’azione proprio di Caravaggio. Se pur analizzato al dettaglio, il quadro di Tolosa non è realisticamente comprensibile. Caravaggio non è un verista, è un pittore della realtà, descrive particolari anatomici, ma il gozzo sporgente della vecchia ancella non è assimilabile a quello della donna in basso nella Crocifissione di Sant’Andrea. Caravaggio non indulge nella ripugnanza o nel grottesco, anche quando rappresenta fatti di cruda violenza, mai! La sua dimensione, specie nella produzione matura, ripensa lo spazio in termini monumentali e si concentra sulle azioni in atto, ma volutamente bloccate, come sospese nel tempo, un tempo eterno.

La luce è un bagliore che si frammenta sui corpi, evoca atmosfere cupe dove i personaggi sono assorti in una consapevolezza tutta interiore della condizione misera dell’essere umano. È la poetica di un’evidenza meditativa assoluta, che – lo ripeto – pone una distanza tra lo spazio pittorico e chi guarda: questi può infatti contemplare il dramma solo dall’esterno.

Nel dipinto di Tolosa tutti i particolari anatomici sia di Abra che di Oloferne sono descritti ad evidentiam come un’esposizione retorica, ostensiva, chiarificatrice.

Si palesa una peculiarità descrittiva dall’elsa della spada ai merletti della manica di Giuditta, dalle infinite dettagliatissime rughe dell’inserviente alla gola deforme, fino ai denti di Oloferne e alle sue unghie sporgenti: è un altro clima, un altro gusto, nordico appunto, come nordico era Finson. Si potrebbe continuare.

Lo Stato francese, che pure aveva dichiarato il dipinto “Tesoro Nazionale”, ha fatto sorprendentemente  scadere il diritto di prelazione valevole trenta mesi per impedirne la vendita all’estero. Nulla vieta, dunque, al fortunato possessore di questa pregevole quanto problematica tela di venderla come opera di Caravaggio, magari al consueto emiro e perché no, forse anche a un grande museo

Stefania MACIOCE   Roma   marzo 2019