” … veggonsi l’opere sue prime dolci, schiette e senza quell’ombre ch’egli uso poi”. Leggere Caravaggio XVI. La struttura dello spazio nei dipinti del Caravaggio

di Michele FRAZZI

La luce plasma la tridimensionalità ed il tono dei colori.

Il fenomeno luminoso non solo influenza l’apparenza dei colori ma è anche il fattore che ci permette di percepire le dimensioni degli oggetti, infatti la forza del suo contrasto oppure il suo lento digradare consentono all’occhio di valutare le profondità dei piani. Questa osservazione intuitiva è condivisa e spiegata anche dal Lomazzo, che così scriveva nel suo Trattato:

Perche quando il pittore vuol dipingere, & rappresentare i corpi naturali i quali communemente sono tondi, essendo che nel tondo si riceve il lume diversamente percioche ne la prima parte feriscono & lampeggiano più i raggi solari & la luce d’ogni altro lume, & così quella parte resta più illuminata de le altre; & ne la feconda si indeboliscono i raggi & il lume, e ne la terza resta quasi spento” (Pag. 27 ).

Il trattatista dedica un intero libro il quarto allo studio degli effetti del fenomeno luminoso. La luce è in definitiva lo strumento più importante per poter distinguere la volumetria dei corpi, ed il suo utilizzo alterato a scopi manipolativi è un’altra delle peculiarità tecniche riconosciute della pittura del Caravaggio.

Lomazzo tocca questo aspetto quando parla dell’arte di Tiziano e della pittura veneta:

Così Tiziano per dimostrare la sua grande arte nel rappresentare gli effetti del lume col colore, quando voleva mostrare la parte del corpo dove percuote la luce con maggiore veemenza e forza solea mescolarsi di colore chiaro un poco più che non la luce che voleva rappresentare; e là dove la luce percuote riflessa e offuscata, solea mescolarsi un poco più di colore oscuro a paragone de la luce che fere in quella parte del corpo, il che fa rilevare molto la figura ed inganna la vista(pag. 29; sottolineature dell’A.).

Il consiglio di Lomazzo quando descrive l’esempio del naturalismo del cadorino è evidente: per dare un maggiore effetto di rilievo alla figura si deve rinforzare l’ illuminazione delle parti in luce e contemporaneamente rafforzare gli scuri di quelle in ombra, dal maggior contrasto l’occhio percepisce un più accentuato rilievo. L’applicazione pratica di questo precetto porta l’opera ad avere un contrasto più evidente rispetto alla norma (che fere la luce ), in sintesi l’illuminazione utilizzata nel dipinto non è del tutto naturale ma estremizzata nel contrasto e questo artificio tecnico dona maggior rilievo alle figure, ed uno specchio può essere utile per studiare questo effetto.

Caravaggio utilizza frequentemente l’espediente di rafforzare il contrasto nei suoi dipinti, dimostrando così di conoscere molto bene anche questo consiglio del Lomazzo. I critici d’arte suoi contemporanei si accorsero benissimo di questa suo artificio manipolativo e la ritennero una sua prerogariva personale. A questo proposito possiamo citare l’opinione di Bellori

…facevasi ogni giorno più noto per lo colorito, ch’egli andava introducendo, non come prima dolce, e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dar rilievo alli corpi

e quella di Von Sandrart

...cosicche l’oscurità, per mezzo di forti ombre, rafforza la luce che cade sul modello , e perciò produce l’effetto di un più forte rilievo

ed anche di Mancini:

Proprio di questa scuola di lumeggiare con lume unito che vengli d’alto senza riflessi come sarebbe in una stanza da una finestra con le pareti colorite di negro, che così avendo i chiari e le ombre molto chiare e molto scure vengono a dar rilievo alla pittura , ma però con modo non naturale“.

Anche su questo aspetto dunque le fonti coeve sono tutte concordi. La resa della luce nei dipinti di Caravaggio è un processo attentamente pianificato e l’equilibrio tra luce ed ombra è perfettamente studiato e molto calibrato, per cui la maniera in cui le sue opere vengono illuminate può talvolta svilire l’effetto che il Merisi voleva ottenere; una illuminazione non corretta può mettere in luce alcuni particolari che in realtà non dovrebbero essere visibili, privando così l’opera del suo equilibrio, come vedremo meglio più avanti; i suoi quadri perciò devono essere esposti ad una precisa intensità luminosa per essere apprezzati integralmente.

Possiamo arrivare a questo punto ad una ulteriore conclusione, infatti se facciamo riferimento alla tecnica dell’abbozzo monocromo caratteristico della maniera con cui il Caravaggio realizzava i suoi dipinti, possiamo osservare che egli segue la strada di differenziare nettamente le parti chiare e scure fin dalla fase iniziale, in modo che le stesure successive a colore lascino trasparire questo contrasto in modo rafforzato; l’occhio infatti è in grado di percepire anche ciò che è dipinto sotto gli strati finali del colore.

Un esempio pratico di questo effetto lo possiamo verificare nella caratteristica brillantezza dei dipinti su rame; anche Raffaello si era accorto di questo e sceglieva imprimiture di differenti colori a seconda di ciò che voleva dipingere al di sopra; il dipinto visibile in realtà dunque inizia fin dalla fase di abbozzo. In conclusione, anche la particolare procedura pittorica dell’abbozzo iniziale messa a punto dal Caravaggio è uno strumento necessario e funzionale ad una tecnica volta a permettere una migliore percezione delle forme che sono state private delle linee di contorno. La luce esercita un effetto fondamentale anche sulla resa naturale dei colori, anche a questo riguardo Lomazzo postula la necessità che la loro rappresentazione sia necessariamente condizionata dal fenomeno luminoso a cui sono sottoposti ed addirittura in funzione dipendente da questo:

E ben vero; che la luce causa quello effètto, che fa vedere il colore attualmente,- il quale innanzi l’avvenimento della luce, era solamente visìbile. Che ancora che i colori siano ugualmente ne’ soggetti, verbi gratia in un panno rosso stia il colore rosso ugualmente in tutte le parti del panno, nondimeno, perche questo colore non si può vedere senza la luce, la luce causa diverso effetto nel panno conforme alla quantità della luce, che è ricevuta in quel soggetto, perciò il pittore, non hà da dipingere mai il colore tutto solo, mà sempre lo ho da dipingere allumato, cioè con gli vari effetti che sono causati dalla luce, non ricevuta ugualmente nei colorati.”( pag.199).

Dunque in ultima analisi per le ragioni sopra esposte l’attenzione al fenomeno luminoso ed il suo utilizzo come uno degli agenti principali nella costruzione di un quadro è una delle più rilevanti peculiarità pittoriche introdotte e diffuse dal Caravaggio. E’ evidente ora che per mezzo dell’utilizzo ad arte di un rafforzato contrasto tra luce ed ombra, i corpi rappresentati nei suoi dipinti siano invariabilmente dotati di un maggiore rilievo ed una maggiore volumetria percepibile. Così come pure i colori, nei suoi dipinti sono condizionati e modulati in funzione degli effetti esercitati dalla luce, e per questo motivo hanno una apparenza estremamente realistica.

Anche se a noi oggi queste considerazioni appaiono ovvie, quasi scontate, fino a quel momento questi due principi nella pratica non venivano applicati, soprattutto con l’ intransigenza e l’attaccamento alla verità che è propria del Caravaggio, nei dipinti dei manieristi avveniva tutto l’opposto di quanto abbiamo detto, i loro punti di forza erano costituiti principalmente dal disegno e dalla pura bellezza dei colori.

La costruzione dello spazio pittorico e le sue relazioni con la luce

Fatta questa premessa appare ora opportuno procedere ad approfondire gli aspetti che riguardano il più ampio campo dello studio delle relazioni che esistono tra l’organizzazione della luce e la percezione dello spazio rappresentato in un dipinto. A questo proposito possiamo fare una prima importante considerazione e cioè che al contrario degli altri pittori suoi contemporanei per il Caravaggio la luce non è un fenomeno immaginario avente una natura puramente mentale, tutt’altro, nei suoi dipinti essa è ben precisata, realistica, generalmente di tipo diurno (22), e svolge una funzione determinante nell’ambito della rappresentazione.

Nei pittori manieristi invece si avverte benissimo che questa non è nient’altro altro che un parto della loro fantasia, per loro è una semplice necessità del chiaroscuro, un elemento che serve principalmente a modellare le forme, e viene vista come un elemento accessorio al disegno ed esiste in funzione di questo. Basta osservare i dipinti dell’Arpino o di Zuccari, cioè due dei pittori di maggior successo di quel momento, per rendersi subito conto che di norma nei loro dipinti la luce è leggera, sfiora appena le superfici, i loro colori sono attraenti, vari e brillanti, ma risolutamente artificiali.

Dal punto di vista del Caravaggio invece la luce ha un ruolo molto più incisivo, non è più un elemento secondario od accessorio ma anzi è un agente attivo del dipinto, ne è addirittura la vera protagonista. Nel suo caso l’ importanza del disegno si eclissa, le figure esistono solo in quanto illuminate dalla luce, è quest’ultima che crea e rende le forme percepibili, a causa dell’utilizzo dell’oscurità esse esistono solo se vengono illuminate, le figure esistono in funzione della luce, in questo modo l’arte del lombardo rivoluziona gli elementi utilizzati per realizzare un dipinto, annulla il valore del disegno ed utilizza la luce come strumento fondamentale della creazione pittorica, tutto l’opposto dei manieristi.

La tridimensionalità delle figure nelle sue opere trae origine non più dal disegno ma dal forte contrasto tra la luce e l’ombra, è questa peculiarità che rende i suoi personaggi così immediatamente presenti all’osservatore,  l’utilizzo di questo accorgimento che rovescia la scala dei valori della rappresentazione pittorica, è una tendenza che si rafforzerà sempre di più nei quadri successivi al ciclo della Contarelli.

C’è un un ulteriore particolare che ci fa capire quanto fosse all’epoca ritenuto rivoluzionario ed inusuale l’ utilizzo dell’elemento luministico per i pittori, ed è la notizia che emerge nel processo del 1603 che ha per protagonista Filippo Trisegni che chiede a Mao Salini di insegnarli il segreto per fare una figura sbattimentata, cioè con i contrasti di luce caravaggeschi in cambio della delazione su versi infamanti il Baglione (29 ). Ovviamente l’azione esercitata dall’oscurità obbliga il Caravaggio a modificare la gamma dei colori impiegati, che nei dipinti della fase matura tende a ridursi notevolmente rispetto al periodo giovanile, questo accade per effetto dell’intenso utilizzo del gioco di luci ed ombre, i colori in generale si fanno terrei, dal buio spiccano i suoi bellissimi bianchi, i rossi, i verdi e talvolta un blu profondo, che con le loro tonalità sature emergono dall’oscurità.

Quello della trasformazione progressiva della sua pittura in funzione di un più intenso contrasto fra la luce e l’ ombra, e la modifica dei colori fu un passaggio chiave avvertito anche dal Bellori:”Per questo veggonsi l’opere sue prime dolci, schiette e senza quell’ombre ch’egli usò poi”. Per quanto riguarda la rappresentazione dello spazio, Caravaggio nei suoi primi quadri, cioè fino al 1600, non pare prendersi molta cura di questo aspetto, il campo in cui sono poste le sue figure è molto semplice, scarno, indefinito e privo di profondità, molto spesso si tratta semplicemente di una parete su cui si proietta una lama di luce a 45 gradi che serve per indicare la sua origine, si tratta a tutti gli effetti di uno spazio descritto più per necessità rappresentative che per reale interesse.

Le cose cominciarono a cambiare quando il Merisi affrontò l’ideazione delle tele della Contarelli che furono i primi quadri di ampie dimensioni e con un numero rilevante di figure che il pittore si trovò a realizzare. Come si evince dalle radiografie realizzate su questi dipinti, la sua prima idea fu quella di ambientare le scene della Chiamata e del Martirio in uno spazio prospetticamente ben definito.

In particolare per quanto riguarda quest’ultima tela, l’artista in origine aveva pensato di dotarla di una costruzione prospettica piuttosto complessa: i personaggi si trovavano infatti in uno spazio che riprendeva direttamente l’ambiente della l’incisione Prevedari ideata da Donato Bramante (Fig.1). Si tratta di un ambiente caratterizzato da un ampio campo prospettico che si sviluppa in profondità allontanando la parete di fondo per mezzo di un accentuato, lungo punto di fuga. Successivamente il Merisi mutò totalmente indirizzo e contrariamente a quanto fatto in precedenza elaborò quella soluzione puramente luministica e priva di profondità che vediamo ancora oggi in loco ( Fig. 2), viene perciò da chiedersi quale siano le ragioni di questo radicale mutamento e con quale intento adottò quest’ultima soluzione così radicalmente differente dalla prima.

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Mi pare sia appropriato a questo proposito riprendere l’analisi condotta su questo tema da Luigi Spezzaferro, che individua nel rapporto tra spazio e luce i termini di un binomio inscindibile nella pittura del Merisi. Lo studioso mette in evidenza come nell’arte del pittore esista una precisa correlazione, tra la capacità delle sue figure di appropriarsi dello spazio, collocandosi in maniera coerente all’interno di questo, e la sua crescente abilità nell‘ utilizzo delle luci. Il percorso stilistico del Caravaggio ha una precisa evoluzione che parte dal Ragazzo morso dal ramarro, a proposito del quale afferma:

Con quest’opera infatti sembra che il Caravaggio tenti di dimostrare (e ci riesce) come la sola luce sia in grado di costruire e disegnare plasticamente -mediante i contrasto di chiaro e di scuro- non solo gli oggetti e le figure ma anche il movimento“.

Questo tipo di ricerca è destinata a subire poi una ulteriore accelerazione per merito della cultura scientifica assorbita in casa del Monte che influenzò il pittore in varie direzioni:

sia per quanto riguarda la soluzione di problemi prospettico proiettivi ( per esempio medusa, caraffa con riflesso della finestra, nel ragazzo mosso dal ramarro, ruota della santa Caterina), sia per quanto, più in generale, può attenere alla concezione stessa dello spazio individuato dalle cose e perciò strutturante il vuoto, (ad esempio suonatore di liuto e Santa Caterina Thyssen )”. 

Spezzaferro intuisce, e scrive, che la causa più probabile del deciso orientamento dell’arte caravaggesca verso questa ultima direzione intrapresa è stata la diffusione in anteprima all’interno del circolo delmontiano delle idee contenute nel Trattato sulla prospettiva (1600) del fratello del cardinale: Guidobaldo del Monte, che fu dedicato proprio a Francesco Maria. Questa opinione è da ritenersi del tutto corretta, dato che oggi noi siamo a conoscenza del fatto che la notizia che Guidobaldo stava preparando il testo si diffuse in anticipo rispetto alla sua pubblicazione non solo all’interno del circolo del Monte, ma anche all’esterno di esso, questo fatto era conosciuto dall’intero mondo matematico-scientifico.

Gli specialisti sapevano del Trattato che Guidobaldo stava preparando e ne aspettavano la pubblicazione fin dal 1596, come dimostra una lettera di Lazzaro Baldi (23). Questo è fatto è anche piuttosto comprensibile dato che Guidobaldo e suo fratello facevano parte di quella ampia comunità di intellettuali che si chiama Repubblica delle lettere di cui abbiamo già parlato. Come scrive Rocco Sinisgalli il trattato di Guidobaldo fu senza dubbio un testo fondamentale per la storia della Prospettiva e più in specifico per tutto ciò che riguarda lo studio della prospettiva nella rappresentazione delle scene:

Ancora una volta è nell’opera di Guidobaldo Del Monte, i Perspectivae libri sex, che emergono oltre i lineamenti della prima vera trattazione teorica sulla prospettiva, anche i principi esaurienti e pressochè completi della scienza dello spazio illusorio.” (24).

Riguardo a questo testo ed al nostro discorso Spezzaferro continua il suo ragionamento e così si esprime:

In particolare non doveva sfuggire al cardinale ciò che implicitamente si dimostrava proprio nell’incisione posta in apertura del trattato, cioè che lo spazio è infinito, poiché la retta verso cui concorrono i fasci di rette parallele è solo l’illusoria retta dell’orizzonte ( in realtà mai raggiungibile e quindi fisicamente inesistente). Il che in altri termini, trasportato in pittura poteva anche intendersi come non esiste uno spazio dove si possono collocare le figure ( non esiste uno spazio scatola ) bensì è solo l’uomo che individua, per mezzo di loro lo spazio ( ricostruisce lo spazio da loro individuato)“.

Spezzaferro si riferisce all’immagine prospettica (Fig.5) che si trova sul frontespizio del libro il cui teorema relativo viene descritto con dovizia di particolari nel liber quartus, problema propositio XII, dove si stabilisce il principio che per l’occhio i punti di fuga relativi a diversi piani di un oggetto si trovano tutti allineati sulla stessa linea.

Fig. 3 Guidobaldo del Monte, Problema Propositio XII , illustrazione del teorema

La conseguenza che Spezzaferro trae da questo enunciato è che per costruire la rappresentazione di uno spazio non è necessario servirsi di piani chiaramente disegnati (spazio scatola), lo spazio infatti viene implicitamente ricostruito dall’occhio dell’osservatore attraverso le relazioni prospettiche che si creano fra gli elementi presenti nella scena, come si può osservare per esempio in questa incisione di Hans Vredeman De Vries (Fig.6) che rappresenta diversi solidi messi in prospettiva, se noi ora cancellassimo il piano su cui appoggiano ed anche la quinta laterale, l’occhio non ne avrebbe comunque bisogno per fasi una idea della profondità del campo.

Fig. 4 Hans Vredeman De Vries, Solidi nello spazio prospettico, Incisione

Caravaggio dunque per la prima volta nella seconda versione del Martirio e più in generale nei suoi dipinti maturi fino alla Morte della Vergine decide di eliminare quello che Spezzaferro chiama lo spazio scatola e cioè la rappresentazione del piano superiore, l’inferiore e i laterali.

Infatti le radiografie del dipinto ( Fig.7) hanno mostrato che la prima versione del Martirio di San Matteo era stata realizzata con uno spazio ben definito che andava in profondità, con un punto di fuga perfettamente visibile.

Fig. 7 Composizione di foto del martirio di San Matteo con le immagini risultanti dalla radiografia

Si trattava di una immagine come quella che si vede nell’incisione Prevedari (vedi Fig. 3), questa scena verrà poi sostituita da una seconda e definitiva versione dove le quinte laterali superiore ed inferiore non vengono precisate (vedi Fig. 4).

E’ ora opportuno andare oltre quanto contenuto nelle prime parti del Trattato e già evidenziato da Spezzaferro, per analizzare quanto Guidobaldo teorizza nel suo fondamentale ultimo libro del Trattato: si tratta della parte dedicata alla rappresentazione dipinta dello spazio, che appunto ha per titolo: De scenis; qui Guidobaldo enuncia un teorema fondamentale. Questo teorema descrive un principio cardine della rappresentazione scenica che il suo inventore, appunto, Guidobaldo del Monte, chiama il Punto di vista del Principe. Si tratta del principio attorno al quale ruota tutto l’ultimo libro, dove si approfondiscono i rapporti esistenti tra la prospettiva dello spazio fisico del teatro dove sono gli spettatori e quello delle tele dipinte nei fondali teatrali.

Questa sezione del Trattato fu dedicata allo studio del problema percettivo che nasce dal rapporto che si instaura tra i punti di fuga relativi allo spazio prospettico dipinto ed i punti di fuga reali dall’ambiente in cui è posta la scena. Qui si arriva ad una conclusione fondamental: se all’interno del dipinto vengono disegnati i riferimenti prospettici ed i relativi punti di fuga, allora l’ osservatore per avere la sensazione di una continuità tra la prospettiva reale del proprio spazio e quello rappresentato dovrebbe essere posizionato in una sola precisa posizione, quella in cui la percezione del punto di fuga dello spazio reale e quello rappresentato coincidono, questo punto viene chiamato da Guidobaldo Punto di vista del Principe (Fig.8).

Fig. 8 Guidobaldo del Monte, Illustrazione geometrica del Punto di vista del Principe

Per ovviare a questo problema percettivo il Caravaggio si serve di un elemento fondamentale: l’oscurità. Attraverso di essa egli rappresenta nei suoi dipinti solo brani di immagini, con una organizzazione discontinua, in modo da non permettere all’osservatore di ricostruire intuitivamente la profondità dell’ambiente dipinto nemmeno per mezzo dei punti di fuga degli oggetti ( come si può fare nella Fig.4); l’oscurità così, di fatto, annulla completamente qualsiansi possibilità di intuire la profondità dello spazio del dipinto.

Nel Martirio di San Matteo è solo la luce che permette alle forme di esistere, inoltre essa illumina solo lo spazio in primo piano, quello che si proietta verso l’osservatore. Dunque in ultima analisi non solo vengono eliminati i riferimenti prospettici dei piani fondamentali (lo spazio scatola), ma in aggiunta Caravaggio utilizza l’oscurità per annullare tutti i riferimenti spaziali di profondità per annullarne totalmente la percezione.

Un fatto di cui probabilmente si era accorto anche Gaspare Celio quando scrive riguardo ai quadri della Contarelli che le figure non

se mostravano le sue distanze secondo il luogo”.

Questa radicale differenza pone dal punto di vista della concezione prospettica, completamente in antitesi la prima e la seconda versione delle tele Contarelli.

La voluta eliminazione di qualsiasi riferimento prospettico relativo allo spazio rappresentato nel dipinto, permette così al Caravaggio di raggiungere il suo obiettivo finale e cioè quello di evitare la percezione di una discontinuità tra lo spazio dell’osservatore e quello rappresentato nel quadro. In altre parole  la cancellazione di qualsiasi riferimento spaziale, per mezzo dell’oscurità, attuata scientemente dal Caravaggio al fine di manipolare la percezione dell’osservatore, è lo strumento di cui si serve per evitare la discontinuità della percezione dello spazio rappresentato e quello reale nell’ occhio di chi guarda, e questo artificio è derivato dalle teorie di Guidobaldo.

In questo modo osservando il quadro non si ha più la sensazione di vedere una scena che si svolge in un contesto spaziale diverso da quello in cui si è: il dipinto infatti essendo privo di informazioni precise riguardo il contesto spaziale riesce a dare l’illusione che l’ azione si stia compiendo ora davanti a chi guarda, nel suo stesso spazio in quell’esatto momento. Per raggiungere questo scopo Caravaggio introduce anche una ulteriore importante modifica che divide la prima versione del Martirio dalla seconda, laddove nella versione definitiva aumenta notevolmente la scala delle figure portandole a grandezza vicina al naturale (vedi Fig 7), questo è un ulteriore accorgimento che si rende necessario, ed anzi è indispensabile per raggiungere lo scopo appena descritto, quello di rendere la scena immediatamente presente allo spettatore, per farlo partecipare all’azione; dunque il Merisi è obbligato a dipingere le figure con una scala coerente con la dimensione dell’osservatore in modo che questi abbia la perfetta sensazione del loro realismo e della loro immanenza, un effetto questo che con le figure piccole sarebbe evidentemente del tutto impossibile.

Questa è anche la ragione per cui Caravaggio si rifiuterà sempre di fare figure che non siano in scala naturale, cosa che viene descritta in una lettera dell’Ambasciatore Attilio Ruggeri al duca d’Este nel 1605, nella quale gli oppone il rifiuto di dipingere figure piccole. Questo è anche il motivo per cui, a partire dalla fase matura, nel caso egli sia costretto ad utilizzare tele di ridotte dimensioni, che non permettono di rappresentare figure intere, egli utilizza un taglio ristretto del soggetto dipingendo mezze figure, che sono sempre ritratte a una grandezza prossima al naturale, proprio per rispettare i problemi di scala, dunque attraverso un taglio più o meno ravvicinato riesce a superare il limite dalle dimensioni della tela.

Caravaggio, Santa Caterina d’Alessandria, Madrid, Museo Nacional Museo Thyssen-Bornemisza

In aggiunta a questi fatti si può ulteriormente osservare, come è accaduto nel caso della Fiscella, della Santa Caterina e del San Matteo scrivente, che gli elementi del dipinto si proiettano verso l’osservatore, cioè sono costruiti in modo tale da dare l’impressione che essi invadano lo spazio di chi guarda, quasi si trattasse di un trompe l’oeil, ed anche questo accorgimento fa parte dei mezzi utilizzati per connettere lo spazio del quadro con quello in cui è collocato. Da questa analisi emerge che gli sforzi dell’artista sono dunque tutti chiaramente tesi a fare in modo che lo spazio del dipinto sia percepito dall’osservatore esattamente come quello in cui anche lui è inserito. La accorta gestione dell’oscurità e della luce gioca sotto questo punto di vista un ruolo fondamentale per per il raggiungimento di questo scopo illusivo: lo spazio del dipinto deve essere sentito, avvertito come presente e reale dallo spettatore, in ossequio a quel principio di veridicità che sempre guida il pittore.

Anche Giuliano Briganti si era accorto del risultato che Caravaggio voleva ottenere attraverso la manipolazione della fonte luminosa, ed aveva intuito che l’oscurità era lo strumento fondamentale di cui si serviva il pittore per rendere le sue scene immediatamente presenti all’osservatore:

”In un quadro caravaggesco il nero del fondo su cui campeggiano le figure è inteso come uno spazio entro il quale vive idealmente anche chi guarda il quadro, come se la scena si svolgesse nella stessa stanza dove sono i riguardanti…”(39).

I critici contemporanei compresero bene che la rappresentazione spaziale del Caravaggio mancava di chiarezza, sia il Celio ( come abbiamo appena visto), che il Bellori che scrive che il Caravaggio  ”coloriva tutte le figure ad un lume e sopra un piano senza degradarle”.

A questi storici era dunque del tutto evidente che la sua pittura era lacunosa per quanto riguarda la resa prospettica, e per questo motivo veniva criticato anche dai pittori contemporanei “per non intendere né piani né prospettiva”, ma in realtà questo aspetto era stato attentamente pianificato dal Caravaggio.

Anche al Berenson (25) non sfuggì la particolare maniera con cui il pittore manipolava attraverso il buio la percezione dello spazio nei suoi quadri, ed infatti scrive:

… ma qui (nel martirio di San Pietro, ndA) come nella Conversione di San Paolo, come nella maggior parte delle composizioni caravaggesche, mi riesce quasi impossibile di indovinare dove mi trovo, in quale spazio fra quali dimensioni (pag. 27) … evita ogni profondità sia confinando la scena in primo piano sia immergendola in un buio così fitto che l’occhio non vi può penetrare ( pag.50)”.

Questa sua intuizione relativa alla particolare maniera con cui il Caravaggio costruiva la percezione dello spazio pittorico fu uno dei punti fermi della monografia di Berenson, fu un filo conduttore che ritorna in diverse pagine del suo testo (pagg. 27,32,33,39,50,72). Alla fine della sua analisi lo storico arriva ad una fondamentale conclusione sulla quale non possiamo che essere assolutamente d’accordo:

Ma poichè l’ignoranza era improbabile ai suoi tempi, è lecito supporre che egli ignorò lo spazio di proposito”(pag. 72).

 A queste riflessioni degli storici sullo spazio rappresentato nei suoi dipinti si aggiunge poi, e non a caso, il parere di una persona che della gestione dei volumi e dei problemi prospettici fece la sua professione, quello di un importante architetto, Luigi Moretti che nel 1951, l’anno della famosa mostra milanese di Caravaggio, scrisse:

Il passaggio poi, da questo accentramento di interessi sull’ intera forma all’ accentramento acuto su una sezione di una forma, assunta come unica addensatissima realtà rappresentativa della forma stessa, e tagliata contro un’ ombra che assorbe e annulla le altre sezioni e ragioni della forma, è un progresso dell’ algoritmo espressivo a noi, ora comprensibile in sede dialettica; ma che di fatto, nella storia della rappresentazione figurativa, è un colpo d ‘ala di straordinaria potenza che sconvolge e supera una catena che poteva darsi lunghissima, di passaggi e conquiste intermedi. Il Caravaggio ebbe questo colpo d’ala trapassando in pochi anni dalla cesta di frutta della Ambrosiana alla conversione, al martirio di San Matteo. La cesta di frutta ha una realtà accentrata contro un fondo quasi svuotato, appositamente monotonico, quasi privo di esistenza formale e autonoma. Ma nelle due grandi tele dei fatti di San Matteo la nuova vetta è già al sommo raggiunta; lo spazio rinascimentale è fratturato, il fondo è ombra, ove non vivono forme; la forma vive come tale e rifiuta ogni altra logica e struttura; la luce diventa unico avvertimento della forma. “ (26 ).

Molto correttamente dunque Moretti individua la particolare gestione dello spazio delle tele Contarelli come il frutto arrivato a completa maturazione di un discorso che era già iniziato con la Canestra di frutta. Quindi, in sintesi, la profondità spaziale nei dipinti del Caravaggio deve essere intesa come quella che si proietta dalla tela in direzione dello spettatore; la voluta assenza del secondo piano si traduce in pratica nella mancanza della profondità dietro il soggetto che invece ne è fortemente dotato attraverso il contrasto della luce, e questo non fa altro che aumentare la percezione della sua tridimensionalità che diventa in questo modo aggettante verso il pubblico. Per questo motivo nei suoi dipinti l’ unico spazio percepito dall’ occhio è quello che si protende verso di lui, Caravaggio realizza questo artificio col fine di accrescere ancora di più il senso della immanenza fisica dei suoi personaggi nei confronti dell’osservatore.

Caravaggio, Canestra di frutta, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

Come dice Moretti si comprende bene questa tecnica nella fiscella che nella sua semplicità ci permette di avvertire il risultato con chiarezza: nel dipinto il secondo piano non esiste, è irreale e dunque tutto il volume percepibile è solo quello del canestro che si proietta verso chi guarda.

In sintesi, nella pittura del Caravaggio la luce diventa l’ elemento fondamentale anche per quanto riguarda la creazione dello spazio che deve essere percepito; l’assenza di riferimenti prospettici certi si traduce di fatto nell’illusione che la scena accada qui ed ora.

Alle pragmatiche intuizioni dei molti importanti studiosi, che avevano ben compreso lo scopo che il Caravaggio voleva ottenere con la sua arte, era però mancata l’origine e la causa di questa innovazione pittorica che, come abbiamo visto, risiede nel teorema prospettico relativo al Punto di vista del Principe concepito da Guidobaldo del Monte. Dunque il periodo di permanenza presso il cardinal Del Monte e l’influenza che deriva dal suo circolo culturale si dimostrano sempre più determinanti per la formazione del pittore anche, come abbiamo appena visto, nel caso di un elemento così importante come l’elaborazione dello spazio rappresentato nei dipinti.

Caravaggio Scudo con testa di Medusa, Firenze, Galleria degli Uffizi

A questo proposito ricordiamo anche come fin da subito il circolo del Monte esercitasse su di lui una influenza determinante per il cambio di passo nella scelta dei soggetti dei dipinti, un cambio di passo che si manifestò con la realizzazione della Medusa, che con la sua feroce violenza rappresentò un punto di svolta, nell’arte del Merisi e non solo. L’intensità e la tensione emotiva che si sprigiona dai suoi dipinti da questo momento in avanti diventerà un punto fermo della sua arte. Il periodo del Monte fu fondamentale anche per ciò che riguarda le esperienze che riguardano l’utilizzo dell’oscurità nell’orchestrare la rappresentazione.

L’artista lombardo infatti proprio in questo periodo aveva iniziato a concentrare i suoi sforzi in questa direzione con la realizzazione della Santa Caterina; fu con questo quadro che si cominciò chiaramente a comprendere che il pittore aveva preso ad “ingagliardire gli scuri”, insomma, per farla breve gli anni passati a palazzo Madama si rivelarono un passaggio chiave per la completa e definitiva maturazione la sua arte.

Si può dunque in definitiva osservare che la luce nelle sue mani diventa lo strumento fondamentale per manipolare la percezione dell’osservatore, come aveva ben compreso anche Alfred Moir che arriva a fare questa ulteriore osservazione fondamentale:

Gli effetti di luce creati da Caravaggio sono forzati, fittizi, ingannevoli, nonostante appaiano così convincentiSistemi di illuminazione complessi come quello della Vocazione sono frutto della sua invenzione più che di un attento esame delle leggi fisiche. San Pietro non proietta alcuna ombra, è inspiegabile come vengano illuminate le gambe del tavolo, e le stesse sorgenti luminose non sono né abbastanza grandi né abbastanza intense da illuminare tanto violentemente le figure ”(Cfr. Moir Caravaggio pag.44, 92-95).

Dunque il Moir giunge ad una fondamentale conclusione: nonostante le apparenze l’illuminazione dei dipinti del Caravaggio è artificiale, illusoria, non naturale. L’attento studio da lui condotto sull’illuminazione con cui Caravaggio anima i suoi dipinti fa emergere poi anche un’altra importante evidenza: la errata o addirittura l’assenza della proiezione di ombre per quanto riguarda alcuni elementi dei suoi dipinti; questo è un fenomeno che ovviamente è più facilmente percepibile nei dipinti della fase chiara, l’oscurità infatti lo aiuta ad occultare eventuali inesattezze.

Ad ogni modo un punto è chiarissimo: con l’avvento di Caravaggio ed a partire dalle sue innovazioni, la luce in pittura non avrà più un ruolo secondario o episodico ma inizierà a giocare un ruolo determinante e si affiancherà in maniera definitiva agli altri strumenti tipici per realizzare un dipinto, ed anzi diverrà essa stessa il centro fisso attorno al quale si devono modellare gli altri elementi ritenuti fino ad allora fondamentali, il disegno ed il colore, è lei a determinare il risultato finale dell’opera.

Questa sensibilità verso il realismo della luce è un fatto che ad esempio in Annibale Carracci, suo concorrente nel campo del naturalismo, non si percepisce con altrettanta chiarezza. Nella prassi pittorica essa diventerà col passare del tempo sempre più dettagliata ed atmosfericamente precisa e diverrà l’elemento indispensabile ai fini di una perfetta resa naturalistica.

I pittori caravaggeschi che verranno dopo di lui svilupperanno sempre più precisamente questa tendenza, a partire da Gentileschi, Borgianni, Manfredi o Cagnacci, così come accadrà anche per i francesi o fiamminghi, essi continueranno su questa strada esplorandone tutte le più diverse declinazioni; si comincerà a percepire perfettamente se essa è diurna, notturna, artificiale, zenitale o trasversale, con una precisione tale che non era mai stata raggiunta prima.

In sintesi il gioco delle luci e delle ombre è lo strumento fondamentale di cui il pittore si serve come per gestire la percezione dello spazio da parte dell’osservatore nella direzione da lui voluta, il Martirio dunque porta a completa maturazione un discorso che era iniziato con la Santa Caterina d’ Alessandria, la luce è lo strumento di cui si serve per dare all’osservatore l’illusione che le figure gli siano presenti di fronte.

Si può infine concludere che nella sua pittura sia la rappresentazione dello spazio che l’azione della luce (rafforzata nel contrasto) sono entrambe frutto di un’abile costruzione, realizzata in funzione dei suoi scopi rappresentativi: egli non ci fa vedere ciò che è in realtà, ma ciò che lui vuole che sia da noi percepita come realtà, e che è il frutto della sua volontà rappresentativa, realizzata artificialmente per mezzo della sua intelligenza artistica.

Si può dunque ulteriormente concludere che al di là di qualche episodico esperimento precedentemente fatto da altri pittori è proprio Caravaggio che apre la porta agli artisti suoi contemporanei verso il fenomeno luminoso, una attenzione che non è mai esistita prima, con un tale grado di precisione ottica. La luce così afferma definitivamente il suo ruolo di strumento cardine nella realizzazione dei dipinti, è proprio per mezzo ed in virtù di questa che il pittore riesce a pervenire ad una perfetta resa naturale della realtà. Insomma Caravaggio fu un genio non solo per ciò che riguarda la costruzione e la gestione dello spazio ma anche e soprattutto per quanto concerne l’attenzione e la gestione della luce, che furono i due fattori determinanti per la rivoluzione caravaggesca.

Michele FRAZZI   Parma 13 Ottobre 2024