redazione
In un anno davvero micidiale per le problematiche sanitarie mai viste che stiamo attraversando -e che malauguratamente si sta mostrando particolarmente crudele con il mondo della cultura e dell’arte- la notizia che il Cda della Biennale di Venezia ha deciso di attribuire a Maurizio Calvesi, Germano Celant, Okwui Enwezor e Vittorio Gregotti i “Leoni d’Oro Speciali 2020″, va registrata con enorme soddisfazione. Per parte nostra, non possiamo non ricordare, ad un mese o poco più dalla scomparsa, la figura di Maurizio Calvesi; non cessano infatti i ricordi e i rimpianti di chi lo ha conosciuto e frequentato nei vari ambiti di studio e lavoro che lo hanno visto partecipe e assoluto protagonista nel corso degli ultimi decenni. Oggi presentiamo alcune brevi ma significative note di Marilyn Aronberg Lavin, Silvia Danesi Squarzina, Dalma Frascarelli, Anna Lo Bianco, Laura Testa, Sergio Rossi*, oltre ad un testo di Alessandro Zuccari, che ringraziamo per averci gentilmente concesso un’anticipazione di un suo saggio che comparirà sull’ultimo numero di Storia dell’Arte, la rivista fondata da Argan, giunta ai 50 anni di vita grazie a Maurizio Calvesi e al generoso impegno di Augusta Monferini -che l’hanno curata e finanziata.
*L’omaggio del Prof. Sergio Rossi consiste in un approfondito inedito studio sulle commisioni Mattei per Caravaggio che comparirà in due puntate nei prossimi numeri di About Art. Registriamo inoltre che il Prof. Massimo Pulini dedica il suo saggio Capolavori da Salamanca che ospitiamo in questo numero ad Augusta Monferini.
Marilyn ARONBERG LAVIN (english text and italian translation)
Maurizio Calvesi was one of my husband’s (Irving Lavin) oldest friends in Rome. They met as young instructors in the early 1960’s and already shared an interest in Caravaggio. Later Maurizio invited Irving to join the editorial board of his remarkable periodical Art Dossier and they remained colleagues the rest of their lives. I, too, enjoyed Maurizio’s generosity: he invited me to be Visiting Professor for a semester at La Sapienza in 1996, helpfully arranging my classes and making slides available. He and his wife, our dear friend Augusta Monferini, were gracious hosts to us on the Via Pettinari, where we met many of his up-and-coming students. We visited them in Tropea. The last time we were together was at the Convengno honoring Argan in 2009, where Maurizio gave a deeply moving remembrance of the last hours, always intellectual, of his teacher. Surely Maurizio’s legacy has the same aura of devoted respect
Maurizio Calvesi era uno dei più vecchi amici di mio marito (Irving Lavin) a Roma. Si sono incontrati come giovani istruttori nei primi anni ’60 e hanno condiviso assieme l’interesse per Caravaggio. Più tardi Maurizio invitò Irving a far parte della redazione del suo notevole periodico Art Dossier e rimasero colleghi per il resto della loro vita. Anch’io mi sono goduto la generosità di Maurizio: mi ha invitato a fare il Professore In visita per un semestre a La Sapienza nel 1996, organizzando utilmente le mie lezioni e mettendo a disposizione le sue diapositive. Lui e sua moglie, la nostra cara amica Augusta Monferini, ci hanno ospitato con favore nella casa di Via dei Pettinari, dove abbiamo incontrato molti dei suoi studenti più promettenti. Li abbiamo visitati anche a Tropea. L’ultima volta che siamo stati insieme è stato al Convengno in onore di Argan nel 2009, dove Maurizio ha espresso un ricordo profondamente commovente delle ultime ore, ancora intellettualmente stimolani, del suo maestro. Sicuramente l’eredità di Maurizio ha la stessa aura di rispetto devoto.
New York 6 settembre 2020 Marilyn ARONBERG LAVIN
Silvia DANESI SQUARZINA
Dopo la scomparsa di Maurizio Calvesi sono usciti numerosi articoli: i più belli e più completi sono quelli di Alessandro Zuccari sul Sole 24 ore domenicale e di Claudio Strinati su Repubblica. Il lettore mi perdonerà se in questa mia breve pagina tratterò aspetti biografici e autobiografici: dato che la figura dello studioso, i suoi interessi, i suoi specifici campi di ricerca sono stati così bene illustrati, mi sento sollevata da un compito vasto e non facile, e mi abbandono dunque all’onda dei ricordi.
La mia amicizia con Maurizio Calvesi risale al 1966 (credo dunque di essere la più “antica” del vecchio gruppo), quando egli intraprese un grande lavoro sul Futurismo, estremamente innovativo e frutto di profonde ricerche e di contatti personali con Marinetti, destinato a essere pubblicato in dispense nel 1967 e a diventare un volume nel 1970. Io ero da poco entrata come redattrice alla Fratelli Fabbri editori (Milano) e collaboravo all’opera intitolata Arte Moderna con cui i due fratelli editori iniziavano un lavoro non più solo divulgativo bensì di alto profilo scientifico, coinvolgendo studiosi di grande livello.
Il mio colloquio di assunzione presso la casa editrice mi mise di fronte a Franco Russoli e Giovanni Previtali. In questo lavoro sul Futurismo io ebbi l’incarico di curare, in stretto contatto con Calvesi, delle appendici composte da documenti originali, con illustrazioni in bianco e nero tratte dagli archivi, che completavano le tematiche di ciascuna dispensa, riccamente illustrata a colori. In questa occasione diressi una campagna fotografica capillare nella casa di Giacomo Balla, dialogando con le due figlie dell’artista, in un momento in cui le stanze erano ancora intatte e non erano state oggetto di alcuna manomissione. Oltre alle acute osservazioni sul movimento futurista mi colpì una fondamentale notazione, frutto di un forte, rigoroso senso dello Stato, che legava profondamente Calvesi a Adolfo Venturi, a Lionello Venturi, a Giulio Carlo Argan, a Francesco Arcangeli, a Andrea Emiliani (e la lista dovrebbe continuare): con disappunto Calvesi rilevava che le opere più belle dei Futuristi maggiori, erano entrate in collezioni americane, grazie alla potenza economica di grandi Galleristi statunitensi.
Collaborare con Maurizio Calvesi fu fondamentale per la mia maturazione di studiosa: io ero allieva di Giulio Carlo Argan presso la Facoltà di Lettere della Sapienza ed ero stata allieva di Cesare Brandi presso l’Istituto Centrale del Restauro. Ero ancora in quel momento della vita in cui la mente si forma e gli interessi di studio e di ricerca si delineano. Nacque quindi nel 1966 un’amicizia fatta di stima e di rispetto, che sarebbe durata tutta la vita con alti e bassi dato il carattere generoso e ombroso di Maurizio. Avevo già conosciuto Augusta Monferini, futura moglie di Maurizio, quando era stata esiliata presso l’Istituto Centrale del Restauro, a causa del grande amore nato con Maurizio, un amore con un uomo sposato, che nella mentalità rigorosa di quegli anni vietava la loro presenza presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, diretta da Palma Bucarelli. Maurizio abbandonò ben presto la carriera della Soprintendenza, vincendo un concorso da Ordinario che lo fece approdare a Palermo (dove aveva già insegnato anni prima Giulio Carlo Argan) e dove immediatamente creò un gruppo di giovani studiosi che lo adoravano e che rimasero tutta la vita legati a lui.
Alla metà degli anni ‘70 Maurizio venne chiamato a ricoprire la cattedra di Storia dell’arte moderna presso la Facoltà di Lettere della Sapienza, come ardentemente desiderava Giulio Carlo Argan. Si creò subito intorno a lui un gruppo di collaboratori-assistenti tra cui Anna Cavallaro, Maria Luisa Madonna, nonché la sottoscritta. Il progetto di ricerca lanciato da Calvesi fu il Quattrocento a Roma. in quel periodo il tema che più appassionava lo studioso era l’origine romana del Sogno di Polifilo: l’autore non era secondo lui un monaco veneto bensì il principe Stefano Colonna di Palestrina.
Tesi affascinante che sollevò violenti attacchi da Padre Pozzi: Maurizio mi confidò la sua delusione nel notare che nessuno dei suoi collaboratori cercava di adoperarsi per dare sostegno alla sua tesi. Questo mi indusse a ricerche (ventre a terra) sull’argomento, che approdarono a qualche risultato pubblicato su Storia dell’Arte dall’indimenticabile Oreste Ferrari: in effetti il principe romano Stefano Colonna, autore del restauro, secondo le teorie di Leon Battista Alberti, dell’antico tempio della fortuna di Palestrina, trasformato in palazzo di famiglia, era un letterato come testimoniato da scritti inediti di grandi umanisti come Della Valle e Porcari. Non solo, ma la scritta che tuttora corona il palazzo Colonna di Palestrina e che indica nel principe Colonna l’autore del restauro, è un distico elegiaco.
Questi temi furono motivo di amicizia con la grande studiosa del Warburg Institute, Phyllis Pray Bober, prima curatrice del grande progetto del Census.
Erano anni bellissimi, in cui la storia dell’arte era vincente sulle altre discipline, e i giovani più intelligenti seguivano i corsi di Calvesi e i seminari di noi assistenti. Le tesi di laurea che mi vennero affidate come correlatrice erano numerose: cito solo Maria Giulia Aurigemma, Fabio Benzi, Stefano Borsi, Stefania Macioce, Caterina Volpi, tutti oggi in cattedra. La tesi di Francesca Cappelletti fu seguita da Sergio Rossi, e io ne seguii in seguito la tesi di dottorato (quando eravamo in consorzio con Mina Gregori) e ne facilitai le ricerche sull’archivio Mattei.
Seguendo sempre il filo dei ricordi, dopo aver curato per la Biennale di Venezia diretta da Vittorio Gregotti (1975) una mostra sull’architettura italiana in periodo fascista, ebbi il consenso della Facoltà di Lettere di Roma di trasferire lì il mio posticino di ricercatore del Politecnico di Milano (Argan mi disse, lei viene con la sua chiocciolina, non ci saranno gelosie, le gelosie erano la cosa più temuta dal grande Professore) divenni così collaboratrice della Cattedra di Calvesi. Ricordo con affetto la presenza di Maurizio e Augusta al mio matrimonio con Luigi Squarzina, trasferito al Teatro Stabile di Roma, da quello di Genova. Ricordo la bella amicizia con lui subito nata. Ricordo gli anni in cui Giulio Carlo Argan fu impareggiabile Sindaco di Roma, riceveva le sue assistenti Silvana Macchioni e Bianca Tavassi, in Campidoglio alle sei di mattina.
Nel frattempo, senza mai interrompere la mia quasi quotidiana presenza alla Sapienza, con seminari, tesi da seguire, esami, ero diventata professore Associato a Pescara, chiamata poi, tempo dopo, alla Sapienza come Associato di letteratura artistica. La mia fedele collaborazione con Maurizio Calvesi proseguiva con dedizione ininterrotta e spirito di sacrificio. Le gelosie, dovute al troppo affetto per Maurizio, erano inevitabili, e più volte io caddi, per la mia ingenuità, sotto al fuoco amico. Alla metà degli anni ‘80 si aprì una stagione di concorsi universitari che mi consentì di vincere una cattedra universitaria: Arnaldo Bruschi voleva e proponeva, essendo lui Presidente di commissione di concorso, che io vincessi un posto di Storia dell’architettura ma Maurizio, a sua volta membro di un’altra, difficile commissione, che vedeva schierati orientamenti opposti, decretò che la Storia dell’arte era più importante e quindi questo, ancora una volta, ebbe un peso determinante sulla mia vita.
Dopo il concorso andai a Palermo (secondo una tradizione che risaliva a Argan) e lì trovai un gruppo meraviglioso di persone allevate da Maurizio, in primis Maricetta di Natale, poi Giuseppe La Monica e anche Giuseppina Mazzola.
Dopo i tre anni di Straordinariato venni chiamata a Roma, su Storia dell’arte Fiamminga e Olandese, e certo la stima da parte di Maurizio fu determinante. Si laurearono con me, fra i molti, Giovanna Capitelli, Loredana Lorizzo, Adriano Amendola. Poi ci fu il mio passaggio alla cattedra di Storia dell’arte Moderna. Per alcuni anni dovetti succedere alla indimenticabile, carissima Angiola Maria Romanini nella direzione dell’Istituto di Storia dell’Arte. Fu un gesto di obbedienza ai voleri di Maurizio, era necessario riordinare e ripulire gli spazi, (topini nei ripostigli), eliminare l’amianto nei controsoffitti, nobilitare le aule, illuminate da obsolete luci al neon, coordinare i dipendenti, uscieri e bibliotecari, un lavoro gravoso, che limitava il mio tempo scientifico. A questo si aggiunse l’acquisizione e il riordino del Fondo di Lionello Venturi, salvato dalle acque della cantina della antica assistente di Lionello, e trasferito nella stanza (dove troneggiava la fotografia di Lionello) che era di Calvesi e mia (restammo a lungo privi di stanza, fino a che gli uscieri decisero per affetto e stima nei miei confronti, di cedermi un grande locale che loro occupavano con apparecchiature obsolete); ottenni dall’allora Rettore Giorgio Tecce un piccolo contributo per arruolare una brava archivista, allieva del collega Guglielmo Cavallo, Roberta Brandolini, a cui dedicai per tre anni un paio di pomeriggi alla settimana. Il riordino fu fruttuoso e ebbe considerazione dalla Facoltà e dalla Presidenza. In quegli anni riuscii a chiamare a Roma Alessandro Zuccari, in agosto alla chetichella. Ma quando, stanca, rifiutai malinconicamente di ricandidarmi alla Direzione fu Maurizio che accettò di sacrificarsi. E qui la sua lunga esperienza all’interno degli uffici di Soprintendenza si rivelò preziosa, fece funzionare tutto benissimo, ebbe obbedienza e collaborazione dal personale, e trasformò l’Istituto in Dipartimento.
Ma qui desidero fermarmi, per non rischiare di parlare ancora di me stessa. Seguirono le mie attività di docente, per qualche anno di responsabile della Scuola di Perfezionamento, e poi a lungo del Dottorato, sempre in grande armonia e collaborazione con Maurizio Calvesi. Non vorrei dimenticare le nuotate nel mare di Tropea, e le sciate a Campo Felice e anche una foto stupenda di Maurizio, sotto una pioggia di riso, al matrimonio di mia figlia. Vorrei soprattutto ricordare una stagione meravigliosa della Galleria Nazionale d’Arte Moderna che aveva come grande direttore Augusta Monferini Calvesi, stagione di mostre bellissime e di donazioni importantissime allo Stato: Balla, Burri, Manzù eccetera…
Mi sia consentito ricordare un episodio che ben definisce la personalità integerrima di Maurizio (che appoggiava con la sua indiscussa autorità scientifica questa politica di donazioni): una gallerista di Roma si lagnò presso il Ministero e sulla stampa, affermando che lo Stato doveva acquistare le opere d’arte pagandole ai galleristi e non ricevendole in donazione dagli artisti. La lettera non ebbe seguito.
Era questa integrità morale (insieme alla grande statura di studioso) che legava profondamente Maurizio Calvesi a Giulio Carlo Argan e non occorre dire altro: nel nostro mondo tante cose si sanno e non si dicono mai.
Roma 6 settembre 2020 Silvia DANESI SQUARZINA
Dalma FRASCARELLI
Era verso la fine del 1983. Un giorno ancora mite, come spesso capita a Roma in quel periodo dell’anno. L’aula 1 dell’Istituto di storia dell’arte era gremita; gli studenti erano assiepati sui davanzali delle finestre spalancate, seduti per terra tra la cattedra e la prima fila delle sedie. L’improvviso silenzio consentì di capire, anche a chi non riusciva a vedere, che il professore era entrato. Dopo pochi secondi necessari per sistemare il microfono, il professor Calvesi si congratulò per la nostra presenza così numerosa a dimostrazione dell’interesse che le giovani generazioni nutrivano verso l’arte. Ma subito seguirono parole chiare perfino nella loro apparente scomodità.
Pochi di noi avrebbero potuto trasformare la passione per la storia dell’arte nell’attività lavorativa della nostra vita, in un Paese in cui una vera e propria miopia aveva di fatto impedito l’attuazione di quella politica della cultura sancita dalla nostra Costituzione e nata dalla consapevolezza della straordinarietà del nostro territorio e della nostra tradizione artistica confermata dall’impegno e dal valore degli artisti contemporanei. Il discorso non lusingava certo le aspettative di noi ventenni. Ci richiedeva, piuttosto, conferme difficili da formulare ancor prima di iniziare un cammino formativo.
Per me, che solo il giorno prima avevo abbandonato le aule di ingegneria per seguire il mio sogno di sempre di diventare una storica dell’arte, quelle parole suonarono come una sfida e allo stesso tempo come uno straordinario insegnamento di come l’impegno intellettuale, per essere incisivo, non può consistere in vagheggiamenti autoreferenziali, ma in un confronto continuo con la realtà sociale e politica. Confronto che chi decideva di seguire le lezioni del professor Calvesi era chiamato a fare costantemente, sia che si parlasse dei pittori della Cappella Sistina, sia che si parlasse di Caravaggio, di Dūrer o di Duchamp. ll professore ci faceva percorrere la storia dell’arte applicando un inedito metodo di indagine che non rinunciava ovviamente all’esercizio dell’attribuzione, ma non si fermava a quello, con l’obiettivo di ricostruire –cito sue parole scritte nella prefazione di un mio libro- “una storia dell’arte intesa non come storia interna all’arte, ma come evento globale”.
Le letture delle grandi opere del passato e della contemporaneità, basate sul rigoroso riscontro documentario e su una conoscenza capillare delle fonti letterarie, della storia degli avvenimenti e delle idee, hanno sostanziato in noi, allora giovani studiosi, l’entusiasmo per la ricerca, alimentato dai consigli, dalle preziose indicazioni che il professore dava generosamente a chi sottoponeva i propri studi al suo giudizio.
Non so quanti degli studenti di quella lontana lezione del 1983 abbiano avuto la fortuna e il privilegio di poter dedicarsi all’arte e alla ricerca, ma so che, per chi è riuscito a farlo, l’insegnamento di Maurizio Calvesi ha costituito senz’altro un impareggiabile modello.
Roma, 6 settembre 2020 Dalma FRASCARELLI
Anna LO BIANCO
Devo il mio primo lavoro a Maurizio Calvesi. Fece infatti il mio nome quale responsabile per i Beni Culturali di Italia Nostra, incarico fino allora condotto da lui, con incredibile passione civile. Fu un’esperienza fondamentale per comprendere proprio il legame tra la vita civile e quella vissuta dal nostro patrimonio artistico. Ma anche una possibilità di incontri con personaggi chiave del mondo della cultura come Desideria Pasolini dell’Onda e Bruno Toscano, che poi mi furono vicini nella lotta per restituire a Palazzo Barberini tutti i suoi spazi monumentali.
Era il 1978 e a Roma si tenevano le grandi celebrazioni su Piranesi di cui Calvesi era il curatore. Avevo appena discusso la mia tesi di Perfezionamento su temi di Settecento romano e Calvesi mi coinvolse nell’organizzazione del convegno internazionale sull’artista che concludeva le celebrazioni. In questa occasione ho avuto modo di conoscere la sua personalità in un confronto davvero privilegiato.
Non parlo solo della sua conoscenza profondissima dell’argomento di cui con noncuranza elargiva considerazioni illuminanti, ma anche della sua capacità di rapporti con studiosi di tutto il mondo che, allora all’inizio del mio percorso, ho avuto modo di incontrare e di frequentare, stabilendo rapporti che generosamente Calvesi mi suggeriva di incrementare. Ma nella frequentazione emergeva anche un aspetto molto diverso e direi amichevole di cui mi sentivo onorata: una ironia, una sagacia nel considerare situazioni e problemi che aggiungeva alla personalità dello studioso un carattere smagato e internazionale.
La sua visione di Piranesi, illuminista e romantica insieme, ma anche filosofica e vichiana ha influenzato i miei studi successivi, di cui il testo pubblicato negli Atti del Convegno era un esempio.
Nell’’80, vincitore del concorso per le Soprintendenze, scelsi quale sede il Museo di Capodimonte a Napoli e Calvesi scrisse una bellissima lettera al Soprintendente Raffaello Causa in cui mi presentava e di cui gli sono ancora grata.
Roma 6 settembre 2020 Anna LO BIANCO
Laura TESTA
Sono stata allieva di Maurizio Calvesi all’Università “La Sapienza” per molto tempo: ho discusso con lui nel 1987 la tesi di laurea, (che mi chiese di pubblicare su “Storia dell’arte”, la rivista fondata da G. C. Argan e diretta da Calvesi), la tesi di diploma di Specializzazione e infine, nel 2001 poco prima del suo pensionamento, la tesi di Dottorato. Ancora oggi che sono passati molti anni, mi considero sempre sua allieva e desidero soffermarmi sulla sua figura di docente.
Cosa ha lasciato a noi allievi questo maestro che è stato uno dei più grandi storici dell’arte italiani? Sicuramente un metodo di lavoro.
Fin dalle prime affollatissime lezioni monografiche su Caravaggio o sulla Cappella Sistina, seguite da giovane studentessa all’aula 1 del Dipartimento di Storia dell’arte, questo professore autorevole (“il Professore” lo chiamavamo noi allievi), dal linguaggio chiaro, capace di divulgare con semplicità complesse analisi iconologiche e trasmettere accurate e, nello stesso tempo, affascinanti ricostruzioni documentarie di artisti ed epoche culturali mi ha appassionato, mostrandomi un approccio nuovo alla storia dell’arte.
Con il passare degli anni, conoscendolo di persona, frequentando la sua casa, leggendo i suoi studi, non cessava mai di sorprendermi soprattutto il suo formidabile intuito, l’abilità nel formulare ipotesi che, basandosi sull’analisi integrata del testo artistico, delle fonti e del contesto culturale, venivano immancabilmente confermate dai successivi ritrovamenti documentari.
Solo per citare un paio di esempi: è stato Calvesi, nei sui numerosi saggi dagli anni ’70 al ‘90, a suggerire luogo e data di nascita di Caravaggio: Milano 29 settembre (giorno di san Michele Arcangelo) 1571, ipotesi pienamente confermata nel 2009 dalla pubblicazione, da parte di Vittorio Pirami, del certificato di battesimo del pittore. Sempre lui, nel testo “Le realtà del Caravaggio” del 1990, ha ricostruito le ultime fasi della vita del Merisi, ipotizzando per l’ultimo soggiorno napoletano l’ospitalità presso Costanza Colonna nel palazzo Cellammare di Chiaia, circostanza – tra le tante- che ha trovato pieno riscontro nella documentazione d’archivio resa nota da Vincenzo Pacelli.
Sebbene all’apparenza fosse schivo, di poche parole, nella realtà era sempre pronto a condividere con noi allievi i suoi interessi, le sue nuove tesi e ad accoglierci nella sua casa-museo in via dei Pettinari, insieme alla moglie Augusta Monferini, per ascoltare con entusiasmo il resoconto delle nostre investigazioni negli archivi romani, i nostri dubbi e per fornire i suoi suggerimenti o un incoraggiamento.
Non mancava mai di citare accuratamente nei suoi scritti lo studio di un allievo o di offrire il suo sostegno per la pubblicazione di un documento o di una ricerca che riteneva interessante.
Quando, con Francesca Cappelletti, a fine autunno del 1989, informammo Calvesi del ritrovamento nell’Archivio Antici Mattei di Recanati dei documenti di pagamento dei dipinti realizzati da Caravaggio per Ciriaco Mattei (la Cena in Emmaus, il S. Giovanni Battista e la Cattura di Cristo), egli entusiasta, ci chiese di scrivere un breve articolo divulgativo sulla rivista Art & Dossier, di cui allora era direttore, sostenendo la necessità di rendere subito pubblica la scoperta, per poi preparare un saggio scientifico per “Storia dell’arte”. L’articolo uscì in breve tempo; successivamente venni a sapere che, per inserirlo, Calvesi si era presentato nella redazione di Art & dossier chiedendo di cambiare l’impaginato e la copertina del numero in uscita, nonostante fosse già tutto pronto per la stampa. Nel frattempo, aveva inserito la menzione dei nostri studi nell’introduzione al suo volume “Le realtà del Caravaggio”.
A volte si lasciava andare a qualche ricordo del passato, raccontando del suo rapporto con Lionello Venturi, mostrandoci persino qualche vecchia foto o riferendoci degli aneddoti sui grandi storici dell’arte del passato. Un giorno, nel 1998, andai a trovarlo per parlargli delle mie ricerche su Caravaggio e gli Aldobrandini; nel suo studio aveva appeso un quadro che non avevo mai visto, me lo mostrò con orgoglio: era il piccolo autoritratto di Simone Peterzano, il maestro di Caravaggio. Mi spiegò che era riuscito ad acquistarlo ad un’asta, strappandolo ad altri collezionisti che intendevano aggiudicarselo: gli era costato dunque qualcosa in più del previsto, ma non aveva voluto rinunciare ad acquisire l’autoritratto del pittore di cui si era occupato in gioventù, l’artista su cui aveva scritto la sua tesi di laurea. Capii che il valore di quel quadro per lui era soprattutto affettivo, rappresentava l’inizio di quegli studi su Caravaggio che, proseguiti per tutta la vita, lo hanno impegnato in una lunga e vittoriosa battaglia per sottrarre all’artista lombardo la fascinosa ed anacronistica aura “maledetta”, restituendolo al contesto storico e culturale in cui aveva vissuto e realizzato le sue opere.
Roma 6 settembre 2020 Laura TESTA
Sergio ROSSI
Nella primavera appena trascorsa ho ultimato un denso saggio (che avrebbe dovuto essere edito da lì a breve) su Caravaggio e i Mattei: analisi di quattro dipinti in cui, in tempi non sospetti, tessevo le lodi di Maurizio Calvesi come uno dei massimi interpreti di Caravaggio. Poi i tempi della mia pubblicazione si sono dilatati a dismisura, Calvesi è morto ed io, approfittando dell’ospitalità dell’amico Di Loreto ho deciso che farò uscire il mio saggio in tre parti nei prossimi numeri di About Art come personale omaggio ad un insigne studioso con il quale mi sono trovato a collaborare presso il Dipartimento di Storia dell’Arte della Sapienza per oltre un trentennio.
Il saggio in questione prenderà in esame appunto quattro dipinti di Caravaggio sicuramente commissionati dalla famiglia Mattei (La Cena in Emmaus ora alla londinese National Gallery, Il San Giovannino dei Musei Capitolini, Il San Francesco in contemplazione e la Cattura di Cristo entrambi in collezioni private) attraverso un’analisi stilistica, iconologica e documentaria che almeno per quello che riguarda il secondo aspetto sicuramente non ha potuto prescindere dal pensiero calvesiano.
Roma 6 settembre 2020 Sergio ROSSI
Alessandro ZUCCARI
A poco più di un mese dalla scomparsa, ci sentiamo sempre un po’ orfani, eppure il suo grande lascito è come un’eredità che ci fa riflettere e ci sostiene. Calvesi è stato ricordato come uno dei più grandi storici dell’arte del nostro tempo, un vero Umanista, capace di leggere il passato con gli occhi sempre aperti sul presente, un intellettuale all’antica eppure modernissimo.
Non è possibile ricordare in breve l’impressionante mole delle sue ricerche e pubblicazioni, avviate già prima dei suoi incarichi nell’Amministrazione delle Belle Arti e del suo insegnamento universitario, e proseguite fino all’ultimo. Ha indagato i fenomeni artistici e l’opera dei grandi maestri, come l’Angelico, Piero della Francesca, Pinturicchio, Michelangelo, Raffaello, Giorgione, Lotto, Tiziano, Dosso Dossi, Parmigianino, ma anche un intero sistema culturale e la mentalità di un’epoca, sorretto da un intuito e da una conoscenza che hanno aperto decisivi filoni di ricerca.
E’ a tutti noto, infatti, che Calvesi è stato il primo studioso italiano a mettere in luce le componenti dell’ermetismo rinascimentale, a servirsi nella critica d’arte della psicologia freudiana e soprattutto junghiana e a introdurre, insieme a Eugenio Battisti, quegli studi di iconologia fino ad allora avversati nel nostro Paese, fino a rintracciare inaspettate corrispondenze tra la cultura ermetica rinascimentale e i nuovi linguaggi dell’arte contemporanea.
Calvesi ha dato contributi radicalmente innovativi alla comprensione di artisti come Dürer, Caravaggio, Piranesi, Seurat, Boccioni, Duchamp, de Chirico o Burri. Capisaldi della sua ricerca sono il volume su Dürer, che interpreta l’incisione Melencolia I come fase iniziale dell’opus alchemico, e quello su Duchamp, rinnovato e aggiornato nell’edizione del 2016, la cui acutissima interpretazione è condivisa a livello internazionale.
Questa sua volontà di conoscere, di spiegare il senso effettivo di tante opere, spesso fraintese o studiate solo nei valori formali, ci ha permesso di comprendere ciò che volevano creare e comunicare gli artisti, per cifrati, simboli, allegorie oggi poco comprensibili, ma più chiari agli occhi dei contemporanei. Fondamentale, in questo senso è stata la sua battaglia di una vita, quella dedicata al Caravaggio, iniziata nelle aule di questa università, quando discusse la sua tesi su Simone Peterzano con Lionello Venturi, il quale, prima di Longhi, aveva avviato la riscoperta del pittore. Basta leggere l’introduzione al libro intitolato Le realtà del Caravaggio, per comprendere la lucidità delle sue intuizioni e la passione che lo hanno condotto a sorprendenti conferme delle sue tesi.
La sua lettura in chiave simbolica e religiosa dell’opera di Caravaggio – non certo dettata da motivi confessionali – gli comportarono l’accusa di sostenere tesi infondate e di stampo reazionario; ed invece conservatrici e superficiali si sono poi rivelate le posizioni dei suoi detrattori. Del resto, Calvesi era già abituato a tali opposizioni da quando aveva iniziato a studiare il Futurismo, impostando così il recupero filologico di una delle maggiori avanguardie europee. Tutto ciò dimostra come egli sia stato uno studioso controcorrente, un intellettuale libero da cedimenti ideologici e dall’ossequio al pensiero dominante. La stessa libertà di pensiero e una simile larghezza di vedute egli aveva ammirato in Lionello Venturi, in Eugenio Garin, seppure a distanza, e condiviso con Francesco Arcangeli e soprattutto con Giulio Carlo Argan, che capì presto il valore di Calvesi e ne sostenne la carriera universitaria, e naturalmente con la cara Augusta, che gli è stata al fianco in tante battaglie.
Da intelligente ricercatore e da lungimirante professore, Maurizio Calvesi è stato uno dei grandi esponenti della cosiddetta “Scuola romana” di Storia dell’arte, dando seguito all’illustre tradizione inaugurata da Adolfo Venturi. Ma egli stesso ha creato una sua scuola, prima a Palermo e poi a Roma, con tanti studiosi diffusi in tutta Italia e anche all’estero.
Quando festeggiammo il suo pensionamento egli concluse ringraziando delle parole di stima e di affetto che aveva ricevuto, dicendo: “In fondo che cosa mi resta di tanti anni di insegnamento? La cosa più importante è l’Amicizia, ciò che mi resta di più caro è la vostra amicizia”.
Grazie Maurizio perché l’amicizia non finisce mai.
Roma 6 settembre 2020 Alessandro ZUCCARI