di Claudio LISTANTI
La religiosità di Verdi e la Messa da Requiem. Successo per l’esecuzione di Oren a Santa Cecilia, assieme ad una equilibrata compagnia di canto. Numerosi applausi e chiamate da parte del pubblico al termine della recita.
La Messa da Requiem di Giuseppe Verdi è senza dubbio una delle composizioni più grandi di tutta la Storia della Musica. La prova di quanto diciamo sta nell’enorme richiamo che suscita presso il pubblico di tutto il mondo per il fascino della musica che ne è alla base e per l’immenso senso di spiritualità che accende l’ascoltatore pervaso dal misticismo e dalla religiosità, dove emozioni e sensazioni sono trasportate dalla bellezza senza limiti dei suoni e della vocalità contenuti nella partitura.
Così è avvenuto anche in questi giorni a Roma, grazie all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia i cui responsabili della programmazione ne hanno introdotto l’esecuzione nell’ambito della Stagione 2019-2020, con un concerto che ha richiamato presso l’Auditorium Parco della Musica un pubblico delle grandi occasioni trasformando le tre recite previste in altrettanto concerti elettrizzanti e di non comune spessore interpretativo.
Aggiungere altri giudizi su questa splendida partitura, dopo i fiumi di inchiostro spesi da critici musicali e storiografi della musica fin dalla prima esecuzione del 22 maggio 1874 per giungere fino ai giorni nostri, è praticamente impossibile per chi, come noi, ne sta riferendo di una pubblica esecuzione, senza incorrere nelle ripetitività e nelle banalità.
Vogliamo però porre l’accento sui valori spirituali e immateriali che possono essere utili per trovare una chiave di lettura per questo luminoso capolavoro. Come noto il Verdi scrisse la Messa da Requiem per rendere omaggio ad Alessandro Manzoni, il poeta e scrittore da lui immensamente stimato, quasi venerato, che morì il 22 maggio del 1873 e celebrare così il primo anniversario della scomparsa. L’idea di un Requiem era già balenata nella mente di Verdi per una occasione analoga, la morte di Gioacchino Rossini avvenuta il 13 novembre del 1868. Allora Verdi propose la composizione di una messa da requiem ‘collettiva’ con ognuna delle sezioni affidata ad un musicista diverso. Verdi ne propose anche i nomi e per sé riservò il ‘Libera me. Domine’ che concludeva la caleidoscopica composizione.
Il suo progetto, anche se molto interessante, però, non andò in porto per una serie di motivi, anche futili, che ne compromisero la finalizzazione assieme al rispetto dei tempi previsti in quanto, anche in questo caso, l’esecuzione doveva aver luogo per l’anniversario.
Al fianco di quanto appena detto c’è anche da dire che Verdi in quel periodo era angosciato da riflessioni ‘interiori’. All’epoca era vicino alla sessantina ed anche se la sua vita durò ancora a lungo, è proprio questo il periodo durante il quale un uomo comincia a fare il bilancio della propria esistenza, riscontrare tutto ciò che si è fatto ed ottenuto con quanto ci si aspettava o quanto si desiderava. Non solo influirono su Verdi le disillusioni politiche dovute al fatto che la nuova Italia era ben lungi dall’essere divenuta una nazione dalle caratteristiche attese, in primis per la mancata realizzazione del sogno repubblicano del quale il musicista era fervente sostenitore, ma anche, in campo musicale e artistico, quella non troppo velata ‘germanizzazione’ nel campo musicale che lo faceva sentire in un certo senso ‘superato’ anche se la sua fama e l’apprezzamento del pubblico non vennero mai meno.
Se a questi stati d’animo si aggiunge che poco prima, nel 1867, perse una figura come Antonio Barezzi, il suocero mecenate al quale era legato da stima ed affetto ma anche del padre Carlo che, nonostante gli screzi era lagato a lui con un sentimento di affettuosità; e poi molti amici e persone stimate erano venute meno, non solo i citati Rossini e Manzoni, ma anche personaggi come Angelo Mariani e lo stesso Francesco Maria Piave, il librettista degli anni giovanili che contribuì con la sua poesia alla creazione di alcuni grandi capolavori, che per anni cadde nella totale incoscienza che lo condusse poi alla morte. Ad influenzare questo periodo, contribuirono, senza dubbio, anche i ricordi giovanili di quella famiglia che fu spezzata dalla morte dei due piccoli figli, Virginia e Icilio Romano seguita da quella della giovane Margherita, eventi che chiusero uno dei momenti più tragici della sua vita.
La sommatoria di tutto questo contribuì a condurre Verdi in quello stato ‘umano’ che pone l’individuo di fronte a tutti quei dilemmi che saranno compagni fedeli degli ultimi anni dell’esistenza terrena, dove il mistero della morte alberga in ognuno di noi e per il quale si cerca una credibile soluzione. La consorte Giuseppina Strepponi, acuta osservatrice dell’animo e del pensiero del suo Verdi, in alcune lettere parla chiaramente dello stato d’animo del marito, ravvisando nel suo modo di vivere del momento una certa inclinazione all’ateismo.
La Messa da Requiem di Verdi ha quindi questi presupposti ‘personali’ e, ascoltandola ancora una volta, ci convinciamo sempre di più che con questa partitura il compositore conferma pienamente il suo pensiero ‘anticlericale’ per prediligere un rapporto, in un certo senso, ‘diretto’ con Dio, senza intermediari, un rapporto non da ‘ateo’ ma da ‘laico’, sicuramente credente. La dimostrazione di ciò è che senza questi presupposti pagine come l’Hostias o come l’Agnus Dei non sarebbero mai nate.
Ma dall’ascolto della partitura si percepisce una certa evidenza della paura della morte, soprattutto nelle varie fasi del Dies Irae, come ad esempio le pregevoli pagine del Tuba Mirum o del Rex tremendae, centro gravitazionale di tutta l’opera, realizzato in maniera ‘monumentale’ spesso paragonato, per drammaticità, al michelangiolesco Giudizio Universale della Sistina; in entrambi i capolavori si riconoscono il terrore e la fisicità, emanazioni dirette di quel giudizio scaturito da Dio quando l’anima del defunto ritorna al Padre. Sensazioni straordinarie trasformate da Verdi in una sorta di turbamento dovuto al senso di solitudine derivante dal rapporto diretto tra Dio e l’individuo, che si materializza con lo strepitoso finale, il Libera me adattato, e rafforzato nella resa teatrale e drammatica, da quel Libera me, Domine che il compositore scrisse per la (mancata) Messa dedicata a Rossini. Il Requiem, in definitiva apre una nuova fase della poetica verdiana quella più strettamente religiosa, che si concluderà con il capolavoro della sua maturità assoluta, di uomo e di artista, i Quattro Pezzi Sacri.
L’esecuzione ascoltata presso la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica (recita del 30 novembre) è stata molto apprezzata dal pubblico che ha ascoltato con attenzione ed interesse tutto il concerto grazie anche alla direzione di Daniel Oren, direttore molto apprezzato a Roma non solo per le sue interpretazioni sinfoniche ma anche per quel felice periodo che lo vide guida principale al Teatro dell’Opera, interpretazioni delle quali, tutti, ne conservano un buon ricordo. Qui è stato coadiuvato dall’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e dal Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da Piero Monti che ha assolto al meglio le difficoltà della difficilissima parte vocale. La direzione d’orchestra di Oren è stata attenta a tutte le sfumature e brillante nelle parti più grandiose e trascinanti. Unica nota da fare è relativa a qualche imprecisione negli attacchi, soprattutto degli ottoni, e in qualche punto, una dilatazione dei tempi che ha prodotto una interruzione della tensione drammatica di questo capolavoro che, nell’insieme, è di carattere squisitamente operistico e teatrale.
Proprio per quest’ultimo elemento, il Requiem verdiano, ha bisogno di una compagnia di canto piuttosto omeogena e di innegabile spessore vocale. Senza dubbio quella impegnata nella recita è stata del tutto soddisfacente a partire da Eleonora Buratto, bella e delicata voce di soprano il cui curriculum ci dice appartenente ad un repertorio orientato verso il ‘leggero’ dimostrando però di essere a proprio agio con la difficile linea vocale del personaggio, soprattutto con i frequenti sconfinamenti nel registro grave, offrendo una vocalità di buon peso specifico. Il tenore Francesco Demuro ha assolto bene al suo compito grazie ad una voce piuttosto aggraziata che ha ben figurato nei momenti ‘topici’ di questa parte vocale come il difficile Ingemisco.
Un discorso a parte per le due voci gravi, il mezzosoprano Ekaterina Semenchuk e il basso Ain Anger. Entrambi dotati di un buon impianto vocale e giustamente apprezzati, a livello internazionale, per le loro interpretazioni del repertorio adatto alla loro vocalità. In questa occasione hanno esibito una voce potente e robusta nel registro grave evidenziando però, entrambi, qualche difficoltà nel registro più acuto.
E’ stata, comunque, una magnifica recita molto apprezzata dal pubblico e salutata al termine da lunghi e corposi applausi rivolti a tuti gli interpreti chiamati molte volte al proscenio per dimostrare l’evidente gradimento per tutta l’esecuzione.
Claudio LISTANTI Roma 9 dicembre 2019