di Sergio ROSSI
Sono tornato ad Amsterdam esattamente dopo cinque anni, soggiornando nuovamente all’hotel Jan Luyken, in un antico palazzo dell’omonima via, recentemente rimesso a nuovo e vicinissimo al Museum Plein, che in poche centinaia di metri racchiude il Rijks, lo Stedelijk, il Museo Van Gogh e il Concertgebouw e mi è sembrato come se la città ci accogliesse come una vecchia amica che avevamo lasciato da poco, con le scolaresche che giocavano all’aperto in pieno centro ed i ciclisti che sfrecciavano impavidi da ogni dove. Anche il Sea Food Bar, dove ci siamo subito concessi una squisita e abbondante grigliata di pesce ci ha confermato nell’ottima impressione che avevamo avuto nel soggiorno precedente. Le maggiori differenze che abbiamo trovato rispetto a cinque anni fa consistono nell’uso del contante, che è stato quasi completamente abolito, anche per i pagamenti di pochi centesimi e nella scomparsa, senza quasi, delle buste di plastica, che non esistono proprio più.
Adeguatamente rifocillati abbiamo immediatamente affrontato la mostra di Vermeer al Rijksmuseum, il principale motivo di questo nostro soggiorno e che realmente, come recita la celebre guida, da sola vale il viaggio. Si tratta in effetti di un evento epocale, che merita l’enorme successo che sta riscuotendo, tanto che ormai fino alla fine dell’esposizione prevista per il 4 giugno sono stati già venduti tutti i biglietti disponibili.
Del resto difficilmente potrà capitare in futuro di vedere riuniti ben 27 dei circa trentacinque dipinti rimasti di questo straordinario pittore compresi i tre della Frick Collection di New York che solo raramente presta le opere della sua collezione. Comunque noi i biglietti li avevamo acquistati on line già diversi mesi prima e non ostante l’enorme affluenza di pubblico non abbiamo praticamente dovuto fare alcuna fila ed anche all’interno, grazie all’ottimo allestimento che prevedeva tre o al massimo quattro quadri per sala, la visibilità degli stessi risultava nel complesso soddisfacente.
Ma che lo sforzo organizzativo sia stato veramente impressionante lo dimostra la provenienza estremamente diversificata delle opere in mostra dal Geografo dello Städel Museum di Francoforte, alla Donna che scrive una lettera della National Gallery of Ireland di Dublino; dalla Pesatrice di perle dalla National Gallery di Washington al Bicchiere di Vino dalla Gemäldegalerie di Berlino; dalla Suonatrice di liuto del Metropolitan Museum di New York a La merlettaia del Louvre fino a La lettrice alla finestra della Gemäldegalerie di Dresda, oltre naturalmente alle tele dello stesso Rijks Museum e del Mauritshuis dell’Aia.
Di solito una mostra monografica dedicata ad un unico artista, per quanto sommo possa essere, risulta monotona e ripetitiva, ma in questo caso ogni singolo dipinto, anche quelli che avevo già visto, messo accanto agli altri e osservato nuovamente da vicino riservava comunque delle sorprese ed alla fine è stato come se fossimo stati catapultati da una macchina del tempo all’interno di un ambiente o una via dell’Olanda del XVII secolo, anche perché usciti poi per strada, ci siamo trovati di fronte alle stesse case coi mattoncini rossi e i tetti a capanna che avevamo ammirato nei dipinti in mostra.
Eppure lo sguardo lenticolare e apparentemente quasi “fotografico” di Vermeer non ha nulla a che vedere con il piatto naturalismo di tanti suoi colleghi olandesi della medesima epoca perché il nostro artista è molto più interessato alla ricerca della luce che si fa colore e del colore che si muta in luce (come notava Giuseppe Ungaretti) che alla riproduzione pura e semplice della realtà; ma allo stesso tempo pochi artisti hanno saputo restituirci il sapore autentico delle vie e delle case della propria città, che nel caso specifico era Delft ma che avrebbe potuto essere qualsiasi altro luogo, tanto era insieme particolare e universale.
Ed è proprio questo miracoloso equilibrio di due termini apparentemente antitetici che costituisce l’unicità di Vermeer. Sempre Ungaretti, nell’introduzione ai classici dell’arte Rizzoli del 1967 dedicati al nostro artista, inizia il suo breve saggio con un paragone, apparentemente spiazzante ma in realtà illuminante con la Madonna di Urbino di Piero della Francesca, che presenta un equilibrio assoluto e quasi astratto (nella sua limpida classicità) di forme e colori, ma dove pure compare, nel cesto di panni sospeso su di una scansia alle spalle di un angelo, una delle prime autentiche nature morte dell’arte italiana:
«Ne risulta un ambiente chiuso, di un raccoglimento colmo del silenzio. Tutti elementi che Vermeer non dimenticherà».
In effetti dubito che il pittore di Delft conoscesse Piero della Francesca, ma è indubbio che la sua capacità di trasmettere la percezione dei suoni, dei rumori o la loro assoluta assenza sia addirittura superiore a quella di Piero.
Vi è silenzio anche in Cristo in casa di Marta e Maria, dove le parole sono sostituite da un reciproco gioco di sguardi; vi è silenzio perfino nel Gentiluomo e donna che beve, perché lo sguardo libidinoso dell’uomo e l’espressione ormai perduta della giovane bevitrice non hanno bisogno di nessuna parola; qualche sommesso rumore, come di barche che appena sfiorano l’acqua o di passi di donna sull’acciottolato ci sembra di percepirli nelle sue due magnifiche vedute di Delft; nella Lattaia invece, la donna forse canticchia appena qualche motivo mentre il latte scorre nella scodella; e poi la musica, che risuona nelle grandi stanze semivuote da una spinetta o da un liuto ci giunge anch’essa come attutita e in lontananza.
Ma in definitiva chi era Johannes Vermeer?
La sua vita si svolge tutta a Delft dove nasce nel 1632 e dove muore nel 1675. Nonostante provenisse da una famiglia protestante, egli sposò una giovane cattolica, Catherina Bolnes (dalla quale ebbe undici figli) nel 1653. E nello stesso anno venne accolto nella Gilda dei pittori di Delft. E’ ormai accertato che anche Johannes si convertì al cattolicesimo, anche se molti degli acquirenti dei suoi quadri erano protestanti; ma a parte queste e poche altre scarne notizie in realtà molto poco si sa del nostro artista e questo ha contribuito a circondarlo di un alone di mistero in gran parte ingiustificato, perché in definitiva i suoi quadri parlano per lui, come accade alla maggioranza dei grandi geni. Certo la sua produzione appare estremamente limitata, soprattutto se paragonata a quella dei suoi colleghi contemporanei, ma è molto probabile che per Vermeer l’attività di pittore non fosse l’occupazione principale (almeno ufficialmente) e neppure la principale fonte di guadagno e questo dato ne aumenta l’assoluta unicità all’interno della pittura olandese del XVII secolo. Anche la cronologia delle sue opere, circoscrivibili entro l’arco di un ventennio, è tutt’ora problematica ed a parte un ristretto numero di tele databili con una certa sicurezza tra il 1654 e il ’56 ed un altro tra il 1670 e il ’74 per la maggior parte dei casi i pareri oscillano di tre, quattro o addirittura cinque anni rendendo questo esercizio quasi pleonastico.
Un dato molto più interessante mi appare quello sottolineato dal compianto Daniel Arasse che nel suo bel libro del 1993 riedito nel 2001, L’ambition de Vermeer, osserva come nel 1662 venga tradotto in fiammingo Il Cortegiano di Baldassar Castiglione, testimoniando come ormai nelle Fiandre e nei Paesi Bassi del Seicento ceti sempre più larghi sentissero il bisogno di elevarsi socialmente non più solo attraverso il denaro ma anche attraverso l’acquisizione di quell’eleganza sottile, quella nonchalance (sprezzatura è propriamente il termine usato dal Castiglione) che consiste essenzialmente nel far apparire come naturale e istintivo ciò che è il frutto di un assiduo esercizio.
Applicato alla pittura questo è il principio “dell’arte di nascondere l’arte” che può essere proprio una delle chiavi di lettura più interessanti e originali della produzione vermeeriana. E in effetti è proprio attraverso questa “sprezzatura” che Vermeer può far apparire come una semplice scena di genere, come un volto colto in primo piano o una reale veduta cittadina quello che è in realtà un esercizio altissimo e sapientissimo di pura pittura, di equilibri cromatici e formali, di colore che si fa luce e luce che ritorna colore ma che ai nostri occhi non fa apparire che un volto, un paesaggio, un interno borghese di tutti i giorni.
Tornando alla mostra essa si apre opportunamente con Veduta di Delft [fig.1]
e La stradina [fig.2] (entrambe databili tra il 1568 e il 60), opportunamente isolate e che ci introducono immediatamente nel mondo del nostro artista, condensandone tutte le principali caratteristiche. La prima tela è scandita orizzontalmente attraverso quattro fasce cromatiche ben definite: in alto il cielo di una straordinaria luminosità anche se incalzato da nubi minacciose e che occupa quasi metà del dipinto; quindi la città propriamente detta, con i suoi campanili appuntiti, i suoi tetti rossi, l’imponente torre dell’orologio al centro della scena; e poi l’acqua dove tutto si riflette creando mirabili effetti e infine la spiaggia in primo piano scandita da minuscole figurine.
Certo è Delft come lui l’ha vista, immaginata, sognata, ma è soprattutto un dipinto che risponde ad un preciso equilibrio cromatico e formale che prescinde dall’oggetto che in esso è raffigurato. E lo stesso può dirsi de La stradina, dove ritroviamo il medesimo cielo, anche se relegato in un angolo e dove i protagonisti sono ora i mattoni rossi delle case, l’acciottolato grigio in primo piano, la vecchia sull’uscio che cuce, un’altra donna che spazza un cortile, due bambini che giocano accovacciati, un rampicante che pende da un muro, ma che può anche intendersi come un esercizio astratto di pittura pura, che ti catapulta in una dimensione spazio temporale che è quella di Vermeer e non più la tua.
Continuando nel percorso espositivo troviamo ora un primo gruppo di opere databili tra il 1654 e il 56: Diana e le ninfe, Santa Prassede, Cristo in casa di Marta e Maria, in cui il nostro pittore sembra ancora incerto su quale strada intraprendere tra tematiche mitologiche o religiose finché con La mezzana [fig.3] non avviene una svolta decisiva nella sua produzione.
La scena potrebbe in effetti confondersi con i tanti dipinti di mezzane, uomini eccitati e giovani prostitute eseguiti in Olanda nel Seicento, ma in realtà questa sarebbe solo un’impressione sbagliata: innanzi tutto perché vi troviamo alcuni elementi che diverranno tipici anche dei Vermeer successivi: la presa ravvicinata dei volti, il grande tappeto in primo piano, la raffinata maiolica in bilico sul tavolo, il giallo squillante del corpetto della ragazza; poi perché l’erotismo è ancora una volta affidato al gioco libidinoso degli sguardi piuttosto che esplicitato in modo volgare ed infine per la bellezza della giovane protagonista che ritroveremo poi in altri dipinti dell’artista.
A questo proposito qualche buontempone (perché non potrei definirlo in altro modo) ha pensato di identificare la ragazza con la moglie di Vermeer che si autoritrarrebbe poi sulla sinistra del quadro: ora pensare che un morigerato borghese di fede cattolica possa aver ritratto la propria consorte, dalla quale ha avuto ben undici figli, come una puttana e se stesso come un cliente qualsiasi può solo essere preso come una boutade di cattivo gusto e il fatto che la giovane probabilmente ricompare in altri quadri, ma sempre per altro con sottintesi erotici non vuol dire proprio niente, anzi conferma il fatto che se di modella si tratta certo non è la consorte.
Ma questo apre anche ad una considerazione di carattere più generale ed alla ostinazione della maggior parte degli storici dell’arte di confondere i quadri con la realtà, equivoco che ha riguardato anche Caravaggio, che come Vermeer nel dipingere dei volti avrebbe dovuto avere per forza il modello davanti a sé. Invece è accertato che il Merisi era in grado di riprodurre a memoria il medesimo soggetto a distanza di molti anni e lo stesso potrebbe riguardare anche il pittore di Delft, per cui se è certamente vero che molti volti delle sue protagoniste si ripetono quasi uguali, non lo è altrettanto il fatto che esse debbano ogni volta aver fatto da modelle in carne ed ossa.
La mostra prosegue poi opportunamente per gruppi tematici più che in ordine cronologico e lo stesso farò anch’io, anche se ovviamente per motivi di spazio non potrò certo rendere conto di tutti e ventisette i dipinti in mostra. Il primo su cui voglio soffermarmi è il Gentiluomo e ragazza che beve del 1660 circa, proveniente dalla Gemäldegalerie di Berlino [fig.4].
Apparentemente siamo di fronte alla solita scena d’interno avvolta nel silenzio, con l’immancabile quadro nel quadro appeso alla parete e la luce che proviene dal lato sinistro, ma poi notiamo subito che si tratta di una tela dall’implicito sottofondo erotico. Al centro, in piedi, un uomo dall’ampio cappello e avvolto da un mantello di uno splendido verde ha appena versato del vino alla giovane seduta accanto a lui, in abito di raso rosa e cuffietta bianca e che beve da un bicchiere di vetro che non sembra certo essere stato il primo, mentre uno strumento musicale è appoggiato di traverso su di una sedia; la finestra semi aperta è occupata quasi per intero da un grande stemma che ritorna in almeno un paio di altri dipinti e che è stato identificato con quello di Jennetie Vogel, moglie di un vicino di casa di Vermeer ma che qui assume un’aria quasi demoniaca contribuendo ad
accrescere l’ambiguità della scena, nonostante vi si possa intravvedere una figura femminile forse da intendere come la temperanza tradita. Ancora una volta tutto è sottinteso ma forse proprio questo accresce la carica erotica dell’opera.
Ancora un sottofondo erotico lo avevamo trovato in un altro capolavoro assoluto, precedente di circa un quinquennio e conservato al Metropolitan di New York, La ragazza assopita, detta anche Giovane donna ubriaca che dorme [fig.5].
La giovane, certamente una domestica, come dimostrano i suoi abiti, sembra in effetti ubriaca e quindi la tela rientra nell’ambito degli ammonimenti morali che caratterizzano tante opere vermeeriane, come conferma la figura di un uomo che si allontana dalla stanza retrostante rilevato dalle radiografie e che il pittore ha poi eleminato, accrescendo il senso di non detto che costituisce uno dei maggiori pregi della sua arte. Ma è soprattutto la modernità prospettica e compositiva della tela che ci meraviglia: il tavolo in primo piano, su cui campeggia una bellissima natura morta degna del miglior Cézanne forma una diagonale cui se ne contrappone una opposta costituita dalla sedia sulla destra, mentre sul fondo una porta semiaperta lascia intravvedere un altro scorcio magistrale e tutto il dipinto sembra costruito col principio delle scatole cinesi che si incastrano una dentro l’altra.
Proseguiamo ora più velocemente raggruppando i restanti quadri per temi più che per anni. Innanzi tutto vi è un gruppo di almeno cinque volti di giovani a presa ravvicinata su cui spicca l’iconica Ragazza con l’orecchino di perle (1665 circa, Maurithshuis L’Aia), certamente la sua opera più famosa ma non la più significativa [fig.6], paragonabile in questo senso alla Monna Lisa di Leonardo da Vinci. Poi vi sono i circa otto dipinti di tema musicale, con descrizioni abbastanza dettagliate di strumenti quali liuto, spinetta, virginale, e anche una chitarra, tutti suonati da giovani donne o da sole o in compagnia di eleganti damerini. La musica non è semplice ornamento, ma è anche “necessaria al cortegiano”, recita Baldassar Castiglione nel suo libro che come abbiamo visto in precedenza era stato tradotto in olandese proprio in questi anni e che Vermeer sicuramente conosceva; essa è uno degli elementi chiave di quella “sprezzatura” che il ceto altoborghese inseguiva come attestazione del raggiungimento di uno “status” sociale ormai consolidato.
Da un lato quindi le fanciulle intente a suonare questi strumenti vengono ad essere nobilitate nel loro ruolo e caratterizzate tutte come “ragazze di buona famiglia”, tanto per usare un’espressione colloquiale di oggi; ma dall’altro la musica può essere collegata anche al tema della seduzione amorosa, sempre intesa comunque come elevazione spirituale e non come puro istinto dei sensi. In definitiva, i quadri che rientrano in questo gruppo partecipano di entrambi i significati che ho appena elencato, rappresentando una classe borghese che tende a nobilitarsi attraverso la musica e l’amore cortese e a me fanno venire in mente il Borghese gentiluomo di Molière.
Vi è poi il tema epistolare, anch’esso fondamentale, con almeno sei dipinti di donne intente a leggere o scrivere delle lettere, o da sole o in compagnia della loro domestica. Tra tutte scelgo La donna in azzurro che legge una lettera, del 1662/64, conservato proprio al Rijksmuseum e che questa volta è molto probabile che sia proprio la moglie Catherina ritratta incinta [fig.7].
La mappa geografica appesa alla parete e la sua espressione che sembra preoccupata potrebbero far pensare a qualche notizia relativa al proprio coniuge lontano, magari un marinaio, ma naturalmente si tratta solo di congetture e ciascuno può interpretare il quadro come meglio crede che è forse proprio quello che Vermeer voleva. Ma è il meraviglioso gioco cromatico dell’azzurro oltremarino (il colore più caro in commercio) della casacca della donna, che quasi si riflette appena scurito sulla stoffa delle due sedie e che si rapporta al grigioverde della grande mappa e della gonna della signora, anch’esso scurito nel drappo in primo piano, è questo gioco appunto che mi lascia ammirato. Il nostro pittore usa qui due colori, blu e verde, ora schiarendoli e ora scurendoli, come una sonata per violino solo dove gli adagio e i fortissimo si alternano senza sosta ricomponendo alla fine una sublime armonia.
Per ultimo ho lasciato un dipinto, l’ennesimo capolavoro, che mi suggerisce anche qualche considerazione finale, La pesatrice di perle, (1662/64) conservata alla National Gallery di Washington. Ancora una volta è rappresentata una giovane donna incinta, quasi sicuramente la stessa del dipinto appena descritto e con i medesimi abiti, con l’unica differenza di una cuffia bianca sul capo [fig.8].
Ed è proprio questa somiglianza che mi induce a pensare che si tratta di un modello ripreso a memoria più che di un duplice ritratto dello stesso soggetto ripreso a distanza di qualche anno: comunque non è questo il problema. La donna, in posizione eretta, è intenta a pesare delle perle su un bilancino mentre altre gioie sono sparse su un grande tavolo che marca la profondità del dipinto e su cui troneggia un grande drappo blu. Sullo sfondo della scena abbiamo poi, appeso al muro, un grande quadro raffigurante un Giudizio Universale.
L’azione della protagonista è palesemente investita di connotazioni morali e religiose di matrice cattolica, ma è quando si cerca di addentrarsi troppo oltre nell’analisi iconologica che sorgono i veri problemi, come sottolinea molto bene Arasse e come dimostrano i vari esempi che lui cita: perché si va dalla personificazione della vanità attenta ai beni terreni e non al giudizio di Dio secondo Albert Blankaert, alla scoperta fatta al microscopio da Artur Whelelock che i piatti della bilancia sono vuoti e che quindi questo connoterebbe al contrario una giovane responsabile che pesa ed equilibra le proprie azioni; l’equilibrio dei due piatti e sottolineato anche da Nanette Salomon che nota anche come la donna sia incinta e relazionando questi elementi con il dipinto del Giudizio Universale conclude che il quadro si iscriverebbe all’interno della polemica contro la teoria protestante della predestinazione insistendo invece sull’importanza delle opere; ancora Ivan Gaskell confrontando lo specchio appeso al muro con la bilancia interpreta la tela in funzione dell’Iconologia di Cesare Ripa che raffigura “La Verità” con uno specchio e una bilancia e che rapportata al dipinto del Giudizio diventa Verità divina e Religione rivelata.
Ma come osserva sempre Arasse in realtà la figura di Ripa tiene la bilancia in una mano e lo specchio nell’altra, mentre nel nostro dipinto quest’ultimo è appeso al muro e quindi c’è qualcosa che non torna; anche il fatto che i piatti dei bilancini siano vuoti lo si è scoperto solo al microscopio e quindi anche questo era un dato che Vermeer non voleva evidenziare. In definitiva nei quadri del pittore di Delft vi è sempre un qualcosa di non detto, quel quid di “mistero” appunto che è poi indefinitiva il mistero dell’arte, il che non vuol dire certo che i suoi quadri non significhino nulla o che si debba rinunciare ad interpretarli, ma piuttosto che vi è comunque una soglia oltre la quale è inutile spingersi.
Tornando al nostro dipinto e scartando la prima interpretazione come quella più errata, che il dipinto, come dicevo, si iscriva nell’ambito di una morale di matrice cattolica è indubbio, ma parlare addirittura di polemica esplicita contro le teorie protestanti da parte di una persona prudente e attenta a non esporsi come il Nostro mi sembra francamente eccessivo così come stabilire una connessione troppo stretta con l’immagine del Ripa, che certo egli conosceva ma che poi ha reinterpretato a modo suo.
L’ambizione di Vermeer, per concludere proprio col titolo del libro di Arasse, è proprio quella della pittura stessa intesa come fine ultimo del proprio essere uomo ed artista, ambizione peraltro nascosta ai più e custodita come un geloso segreto, ma non per questo meno significativa. E i suoi, prima di essere anche ritratti, vedute, scene di genere o scene con connotazioni morali e religiose sono quadri, tra i più belli mai dipinti nel corso dell’arte occidentale e che questa mostra ci ripropone in tutto il loro splendore.
Sergio ROSSI Amsterdam Aprile 2023