di Sergio ROSSI
VIAGGIO II: VIETNAM E CAMBOGIA
Un viaggio nel tempo, un ritorno alle contestazioni sessantottine della “guerra sporca degli americani” e del “Nixon go home”; la chiusura di un cerchio finora rinviata per svariati motivi e che finalmente mi sono voluto concedere durante le ultime vacanze natalizie.
All’uscita dall’aeroporto di Hanoi mi hanno accolto le rosse bandiere nazionali con la grande stella gialla al centro affiancate a quelle con la falce e martello del Partito Comunista Vietnamita. L’impressione è che il Partito, naturalmente l’unico ammesso, controlli la vita del paese fin nei minimi gangli, ma più come entità collettiva che come singole personalità; infatti mi ha colpito il fatto di non aver visto durante tutto il soggiorno una sola immagine degli attuali leader politici e l’unico culto della personalità consentito è quello di Ho Chi Min, che però essendo morto nel 1969 avvolto da un’aura di leggenda è ormai poco più che un nume tutelare.
Del resto, al di fuori del Vietnam, chi conosce il politico locale più influente, ossia il quasi ottantenne Nguyễn Phú Trọng, segretario generale del Partito, o il primo ministro Pham Minh Chinh, che con i suoi sessantaquattro anni è uno degli esponenti più giovani di quella che si appresta a diventare una sorta di gerontocrazia?
Hanoi, con i suoi otto milioni e passa di abitanti è una tipica megalopoli asiatica in piena espansione anche se inquinata, con un traffico infernale e un delirio di motorini spesso con tre persone a bordo che non si fermano nemmeno sulle strisce o con il rosso, rendendo l’attraversamento delle strade addirittura più pericoloso di quello di piazzale Clodio a Roma. Nonostante tutto questo la città conserva una sua particolarità in quelle tipiche “case a tubo”, cioè di tre o quattro piani tutti sviluppati in altezza che resistono strette tra i grattacieli ed un suo fascino “francese” nelle zone più verdi che lambiscono il Fiume Rosso o il lago Centrale. Proprio qui si trova l’hotel Pan Pacific, uno dei più belli e lussuosi di Hanoi, con camere ampie e comode anche se non nuovissime, una bella vista sul Fiume Rosso ed un bagno supertecnologico in stile giapponese, dove abbiamo potuto posare le valigie e riprendere un attimo fiato.
Ovviamente il giro della città non poteva che iniziare dal Mausoleo di Ho Chi Min, posto nel distretto di Ba Dinh, centro politico del paese e sede della maggior parte degli uffici governativi. Lo si raggiunge attraversando una sorta di enorme spianata in stile sovietico dove si può assistere allo spettacolare cambio della guardia del Mausoleo e dove immagino si svolgano tutte le principali adunate del regime, ma anche dove la domenica la gente viene tranquillamente a passeggiare. Si tratta di un edificio in granito grigio (colore del lutto per i vietnamiti) ispirato nelle forme al mausoleo di Lenin a Mosca e che sorge nel luogo preciso in cui il 2 settembre del 1945 il leader allora cinquantacinquenne lesse la dichiarazione di indipendenza che dava inizio alla Repubblica Democratica del Vietnam. Al suo interno si conservano le spoglie imbalsamate di Ho, meta di un continuo pellegrinaggio, tranne che nei periodi necessari alla conservazione della salma in cui l’edificio, come nei giorni della nostra visita, è chiuso al pubblico.
Nelle vicinanze si trova il Palazzo Presidenziale, che era la sede dei governatori dell’Indocina francese ed è stato costruito in forme che si ispirano all’arte rinascimentale italiana tra il 1900 ed il 1906 da parte di Auguste Henri Vidieu, attivo soprattutto in Indocina e che ritroveremo presto al palazzo delle Poste di Saigon.
Molto più interessante è comunque la casa su palafitte fatta costruire nel 1958 da Ho Chi Min, che in omaggio al suo stile quasi ascetico si rifiutò di vivere nel lusso della residenza principale e preferì traferirsi nella zona della servitù situata sul retro, con le stanze dove il Presidente riceveva i suoi ospiti, il suo ufficio con il vecchio telefono, il suo cappello preferito e financo il garage con le sue tre automobili di servizio. Ed io che ho visitato anche il Palazzo Presidenziale di Kim Il Sung a Pyeongyang ho potuto apprezzare la differenza tra il lusso sfrenato e pacchiano di quest’ultimo rispetto all’assoluta sobrietà e semplicità dell’appartamento di Ho Chi Min, che indubbiamente era particolarmente amato dal suo popolo anche per la frugalità e dedizione del suo stile di vita e che ancora oggi i nordvietnamiti chiamano affettuosamente lo Zio.
Dopo una piacevole sosta in un ristorante tipico vietnamita (il Môc, uno dei migliori della città) abbiamo visitato due luoghi iconici e considerati imperdibili per i turisti: La Pagoda a pilatro unico ed Il Tempio della Letteratura. Il primo edificio è uno dei monumenti più amati e visitati di Hanoi e nonostante le sue piccole dimensioni si impone per l’unicità della costruzione e l’eleganza del suo stile: sorge su un unico pilastro di pietra che sorregge un tempio in legno a forma di loto edificato tra il 1028 ed il 1054 durante il regno dell’imperatore Ly Thai Thong e più volte restaurato, l’ultima volta nel 1955 quando la sua base è stata distrutta durante l’evacuazione francese. Come è noto, per i buddisti il fiore di Loto è simbolo di purezza e di elevazione spirituale, perché sorge dalle acque e dal fango senza farsi contaminare ed è proprio a questo significato che il nostro tempio rimanda con le sue agili forme. Al suo interno è posta la statua di Quam Am o dea della misericordia, oggetto di particolare venerazione da parte dei fedeli buddisti.
Il Tempio della letteratura è invece un edificio estremamente articolato, costruito nel 1070 dall’imperatore Lý Thánh Tông e dedicato a Confucio, ma che in realtà è un luogo dove si misura pienamente la natura sincretistica della spiritualità vietnamita. Il complesso ha ospitato l’accademia imperiale, dove si svolgevano le severe sessioni di esame per accedere al mandarinato. E’ diviso in cinque corti interne che rimandano ai cinque elementi base della dottrina taoista del Feng Shui: metallo, legno, fuoco, acqua, terra. Il cortile più interessante è quello delle Tartarughe, dove vi sono 82 stele appoggiate al dorso di altrettante grandi statue in pietra raffiguranti il grosso rettile, simbolo di forza e longevità e ogni lapide mostra il nome di coloro che hanno superato gli esami di più alto livello per accedere al mandarinato. Continuando la visita si giunge infine allo sfarzoso Santuario di Thành, dove vengono venerati Confucio e i suoi quattro più grandi discepoli e che continua ad essere meta di un incessante pellegrinaggio.
A metà pomeriggio ci siamo concessi un ottimo espresso in un bar vicino al Teatro Than Long, quello delle marionette sull’acqua, e forse pochi sanno che il Vietnam è il secondo produttore di caffè al mondo dopo il Brasile e si tratta di un caffè di ottima qualità. Lo spettacolo, dal canto suo, è stato molto divertente e istruttivo, richiamandosi alle profonde radici contadine della cultura vietnamita e solo al suo termine ci si accorge che oltre ai burattini anche i poveri burattinai rimangono immersi per metà nell’acqua durante tutta l’esibizione. Al mattino seguente, tra risaie e vasche per l’allevamento del pesce (il Vietnam è uno dei massimi esportatori mondiali di gamberetti) abbiamo raggiunto la Baia di Ha Long dove ci siamo imbarcati sulla comodissima nave da minicrociera Indochine Cruise per iniziare il nostro giro.
La baia, patrimonio mondiale dell’UNESCO dal 1994, è effettivamente uno dei luoghi più affascinanti e poetici dell’intera Indocina, con la sua miriade (se ne contano addirittura 1969) di isolotti monolitici, faraglioni e scogliere dalle forme bizzarre e ricoperte di vegetazione pluviale che sorgono dalle acque come ammalianti sirene e “dove i draghi scendono nel mare” come indica lo stesso nome del luogo perché, secondo un’antica leggenda, le isole della baia furono create proprio da un grande drago che viveva sulle colline. Sulla nave abbiamo pranzato e cenato e lo spettacolo del sole che al tramonto si immerge nell’acqua, con i suoi riflessi dorati e dall’acqua riemerge magicamente al mattino seguente, valgono effettivamente da soli il viaggio, come recita una celebre guida.
Nei successivi tre giorni, dopo il trasferimento aereo per Danang, abbiamo potuto visitare luoghi, monumenti e città di grande interesse, attraverso un itinerario che dal Tonchino a nord ci ha fatto raggiungere la stretta zona costiera dell’Annam al centro del paese. Innanzi tutto mi riferisco a My Son, il più importante centro archeologico di tutto il Vietnam, a circa 35 km da Hoi An e che dal 1999 è diventato anch’esso Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Certo, se confrontato con i siti di Angkor che avremmo visitato qualche giorno dopo, My Son potrebbe apparire poca cosa, ma in realtà si tratta di un luogo di grande fascino e grande importanza storica, essendo la principale testimonianza della cultura Champa che, sviluppatasi principalmente tra il IV e il XV secolo dal centro al sud dell’attuale Vietnam, è stata in grado di contendere il dominio della regione ai più famosi Khmer, sconfitti dai Cham nel XII secolo.
Dedicato a Shiva e utilizzato per importanti cerimonie religiose e come luogo di sepoltura dei sovrani, il complesso comprendeva originariamente 71 strutture principali: oggi ne rimangono solo una ventina, in seguito anche ai feroci bombardamenti americani che intendevano snidare i vietkong che qui si erano rifugiati. Le torri santuario, Kalan, realizzate in mattoni, rappresentano l’elemento distintivo del complesso e costituiscono una sorta di preziosa introduzione a quello che avremmo visto qualche giorno dopo in Cambogia. Il fascino della visita è stato poi accresciuto dal fatto che vi fossero pochissimi visitatori e che abbiamo potuto aggirarci tra le torri in tutta libertà e senza alcuna fretta.
Strettamente legato a questo sito è il Museo di Da Nang, costruito dai francesi all’inizio del Novecento e che conserva la più importante collezione di statue provenienti da My Son e dagli altri siti archeologici della civiltà Champa, realizzate in pietra, terracotta e bronzo e anch’esse risalenti ad un periodo compreso tra il VII ed il XIV secolo.
Anche in questo caso non vi è nulla di paragonabile alla civiltà angkoriana, ma vi sono comunque alcune opere di grande interesse, come la statua di Ganesh, che è anche simbolo del museo o il bassorilievo raffigurante una Apsara danzante o ancora altri pezzi provenienti dalla distrutta città santa del buddhismo di Dong Duong, che conferma quello che osservavo prima a proposito della profonda natura sincretistica della spiritualità indocinese, accomunando in questo Vietnam e Cambogia dove i confini tra induismo, buddhismo, shintoismo sono a volte labili; spiritualità e religiosità molto sentite dalla popolazione e che nemmeno l’ateismo di stato ha potuto (e direi ormai nemmeno vuole più) soffocare.
Ad una trentina di chilometri da Da Nang si trova Hoi An, chiamata “La città delle lanterne”, che sta riprendendosi dalla crisi post Covid e sta lentamente riempendosi nuovamente di turisti, attratti dal ponte giapponese, del XVIII secolo, con la sua inconfondibile forma arcuata e le sue raffinati decorazioni; dalla piccola ma decoratissima Pagoda cinese; dal suo centro storico con le sue botteghe e le sua case che si possono visitare, così come una fabbrica per la lavorazione della seta che vende però ormai i suoi prodotti a prezzi degni del centro di Roma o Milano. Ma il vero spettacolo Hoi An, come una Cerentola agghindata per il Gran Ballo, lo offre la sera con la miriade di lanterne colorate che brillano nella notte illuminando strade, botteghe e ristoranti.
Risalendo per un centinaio di chilometri da Hoi An si giunge a Hué, città di circa 350.000 abitanti e che è stata a lungo capitale del Paese. Qui in teoria vi dovrebbero essere solo due stagioni, quella secca e quella umida ma in realtà piove ininterrottamente da gennaio a dicembre, con la differenza che in inverno la tempoeratura, come quella che ha accolto noi, è piuttosto fredda mentre in estate, a quanto ci hanno detto, vi è un caldo umido e soffocante. Comunque, attrezzati con cerate impermeabili e ombrelli abbiamo compiuto la visita della grandiosa Cittadella Imperiale, la cui costruzione è iniziata nel 1805 per ordine di Gia Long ed è stata completata nel 1831 durante il regno di Minh-mang.
Il complesso presenta una configurazione a quadrati concentrici, con all’esterno la Cittadella, costituita da mura fortificate e circondate da un fossato la cui acqua viene fatta confluire dal vicino Fiume dei Profumi ed all’interno la Città imperiale vera e propria, con delle caratteristiche del tutto simili alla Città proibita di Pechino. Sebbene questo luogo sia stato oggetto di feroci scontri prima durante la guerra tra Vietminh e francesi e poi durante quello tra Vietkong e americani, subendo gravissime menomazioni, grazie anche ad un’ imponente opera di restauro tuttora in corso, esso conserva un suo indubbio fascino e rimane una delle principali attrazioni dell’intero Vietnam. Terminata la visita e dopo un’ottima cena presso L’Ancien Hué abbiamo pernottato al Pilgrimage Village Resort, un confortevole 5 stelle in stile coloniale con dei bungalow posti in un lussureggiante giardino.
L’impressione dopo questa prima parte di viaggio è che ormai il Vietnam, un paese appena più grande dell’Italia ma con una popolazione di quasi 98.000.000 di abitanti, si sia pienamente ripreso dalle traversie della guerra civile e del successivo embargo statunitense durato fino al 1993. Qui ormai lavorano tutti e anche se gli stipendi sono ancora bassi per gli standard occidentali la povertà è stata di fatto abolita, a dimostrazione che questo lo si può fare solo con il lavoro e non con i sussidi a pioggia o con i ridicoli proclami dal balcone. L’altra impressione è che i due Vietnam siano in effetti ancora divisi e che quelli del nord si comportino verso quelli del centro sud come occupanti e non come consanguinei e del resto gli eredi dei Vietminh sono certo cortesi ed educati, ma austeri e inquadrati quasi militarmente. La pena di morte è in vigore per molti reati comuni, dagli omicidi allo spaccio di sostanze stupefacenti, dalla corruzione allo sfruttamento sessuale dei minori, ed anche la microcriminalità, a quanto abbiamo potuto constatare, è quasi assente.
La seconda parte di questo itinerario vietnamita ha preso inizio da Saigon (che in realtà nessuno chiama Ho Chi Min City).
La città ci ha accolto con un caldo tropicale, e con l’interessante pagoda Cantonese, costruita tra il 1825 e il 1830 da questa ricca comunità che ancora ne cura il mantenimento e vi celebra fastose cerimonie. L’architettura è tipicamente cinese, mentre nel santuario compaiono congiunti il culto taoista e quello buddhista, come del resto in molti altri monumenti vietnamiti.
Dopo pranzo abbiamo visitato il palazzo delle Poste, edificato anch’esso dal francese Auguste Henri Vidieu, l’inutile mercato coperto e soprattutto il terrificante Museo della Guerra. E’ un luogo che, al di là della crudezza delle immagini, bisognerebbe far visitare ai nostri studenti per mostrare la follia dei governanti statunitensi che pensavano che inviando dei giovani per lo più demotivati e comunque ormai geneticamente modellati sulle mollezze dell’occidente capitalista a migliaia di chilometri e in un ambiente ostile, sconosciuto e impenetrabile, inviandoli dicevo a combattere contro un popolo che conosceva la jungla come le sue tasche, era abituato a sopravvivere per mesi con una sola ciotola di riso al giorno e che già aveva sconfitto francesi e giapponesi si potesse pensare di vincere la guerra.
E più gli americani si incattivivano, radevano al suolo città e campagne, incendiavano interi villaggi bruciando vivi con le bombe al napalm donne e bambini, irroravano il terreno con il famigerato agente arancio (cioè diossina) che dopo cinquant’anni fa ancora nascere bambini malformati, e più i vietnamiti moltiplicavano la loro capacità di resistenza. Inoltre, visitando Saigon, che ancora conserva le tracce, anche se lontane e sbiadite, della Sodoma e Gomorra dei tempi della guerra si comprende di come corruzione, droga e prostituzione dilagante abbiano dato il colpo di grazia agli occupanti statunitensi ormai infiacchiti ed ai loro accoliti sudvietnamiti, più ancora degli stessi Viet Kong. Si comprende anche che la trasformazione di Saigon in Ho Chi Min City, ultimo sfregio del piccolo e macilento David contro l’imbolsito e obeso Golia fosse ormai solo una questione di tempo. E si comprende infine, paradossalmente, che gli errori della storia inducono i potenti del mondo a ripeterli e non a evitarli, come la folle invasione russa dell’Ucraina sta a testimoniare in questi giorni.
Prima dell’ottima cena all’occidentale a bordo del Bonsai Cruise, abbiamo preso possesso delle stanze nel bellissimo Hotel Caravel a due passi da Rue Catinat, celebrata da Graham Greene nel suo famosissimo The quiet american e di fronte all’hotel Continental dove invece è stato ambientato l’omonimo film di Phillip Noyce, con un indimenticabile Michael Caine. Passeggiando in questo triangolo centrale di grandi firme e hotel di lusso si coglie appieno la differenza tra Hanoi e Saigon con le tante leggiadre ed elegantissime fanciulle dalla carnagione ambrata che si accompagnano a maturi occidentali o attendono grandi autovetture davanti agli alberghi, senza perdere la loro grazia di fiori di loto. Ed anche la frenesia del traffico di Ho Chi Min City è diversa da quella di Hanoi: è come se in quest’ultima brulicassero milioni di indaffaratissime e inquadratissime formiche, mentre l’ex capitale del Vietnam del Sud appare oggi molto più simile a Bangkok, per una sorta di caos programmato che comunque ha mantenuto una sua peculiarità atavica incomparabile con la frenesia delle metropoli occidentali. Infine, conserva più retaggi francesi Hanoi (anche se ormai sbiaditi) di Saigon, a suo modo molto più “americanizzata”.
Allontanandoci da Ho Chi Min City abbiamo iniziato a fare conoscenza con il Mekong, il fiume più importante dell’Indocina detto anche “la madre di tutte le acque”, e che scorre per oltre 4500 chilometri attraversando Cina, Birmania, Laos, Cambogia e Vietnam dove forma l’enorme delta. Come è noto, nel periodo caratterizzato dalla presenza al potere dei Khmer Rossi ci fu il loro tentativo di annettersi questa zona, che suscitò la reazione del Vietnam e provocò una solenne sconfitta dei cambogiani e del regime di Pol Pot. Ora il delta è un’area ad alta produttività agricola che ha fatto del Vietnam il secondo esportatore al mondo di riso. Il paesaggio è completamente diverso, caratterizzato, oltre che dalle immancabili risaie, anche da sterminate piantagioni di banane e palme da cocco, una delle principali risorse della regione.
Anzi vi è addirittura un’intera isola, Ben Tre, che è detta appunto l’isola del cocco e che abbiamo raggiunto durante una divertente navigazione fluviale, visitando anche alcune piccole aziende familiari e mangiando degli ottimi involtini ripieni di pesce preparati al momento in un piccolo ristorante del luogo. La città più grande e moderna della zona è Can Tho, che conta più di un milione e duecentomila abitanti ed appare in continua espansione anche grazie al profluvio di capitali cinesi. Dopo la sosta in hotel e prima della cena, da un ponte sul Mekong nelle adiacenze dell’albergo, abbiamo potuto assistere ad una coloratissima ed animatissima festa locale con tanto di luminarie, mongolfiere e fuochi d’artificio e con un imponente schieramento di forze dell’ordine.
A questo punto, nel prosieguo del nostro tour, non poteva mancare la navigazione lungo il Mekong per visitare il mercato galleggiante di Cai Rang, pulsante di autentica vita locale anche se pieno comunque di turisti, con le solite soste di prammatica per assistere all’ennesima lavorazione dei noodle di riso, o alla vendita del pesce secco e frutta tropicale.
E quindi ecco Chau Doc, una cittadina al confine con la Cambogia posta sulle rive del fiume Bassac, dove abbiamo pernottato. Ma come nella serata precedente, prima di cena, abbiamo fatto una passeggiata vicino all’albergo e qui, in una grande piazza, abbiamo assistito ad una performance di giovanissimi atleti di taekwondo, e poco più avanti, su un grande palco allestito per l’occasione, a degli struggenti canti patriottici e sentimentali per noi incomprensibili.
Il vero spettacolo, comunque, è stato quello di un’adiacente pista da ballo all’aperto dove agilissime e sorridenti signore di mezza età ballavano in coppia invitandoci ripetutamente ad unirci a loro. E dopo averci subito riconosciuto come degli italiani hanno messo in nostro onore “L’italiano” di Toto Cutugno: e confesso che ascoltare la voce roca ma intonatissima di Toto scandire a migliaia di chilometri di distanza ed in riva al Mekong “Lasciatemi cantare con la chitarra in mano/Lasciatemi cantare sono un italiano/ Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente/E un partigiano come presidente” se non mi ha emozionato poco ci è mancato, come quando in un paesino sperduto della montagne albanesi un altoparlante diffondeva il belatino armonioso di Julio Iglesias in “Se mi lasci non vale” o come quando, sul finire degli anni ‘90, in un locale di Tallin dove eravamo capitati per caso e pieno di russi, già allora emarginati dagli estoni, un bravissimo tenore, dopo un repertorio tutto basato su Verdi e Puccini per il bis ha cantato a squarciagola “O sole mio” tra il delirio della folla.
A questo punto, lasciata la terra dei Viet, in circa 4 ore di effettiva navigazione con una sosta tecnica al confine tra Vietnam e Cambogia per il controllo dei documenti, abbiamo potuto fare un ingresso trionfale via fiume a Phnom Penh. Eravamo già stati nella nazione degli Kmer dodici anni fa e devo dire che l’abbiamo trovata molto migliorata e meno povera, nonostante il Covid abbia indubbiamente influito negativamente nell’ultimo periodo, dimezzando il turismo che solo da poco sta cominciando a riprendere quota. L’unica cosa che non è mutata è la quasi ossessiva sfilza di immagini del primo ministro e leader del Partito Popolare Cambogiano Hun Sen, capo indiscusso del paese da quasi un quarantennio e del suo alleato Heng Samrin, presidente del parlamento (benché a quanto pare analfabeta), che ci accompagneranno durante tutto il viaggio.
Le visite della capitale sono iniziate subito con il Museo Nazionale, che ospita una delle più grandi collezioni mondiali di oggetti d’arte khmer: oltre 14.000 tra sculture in pietra, ceramiche, bronzi e reperti etnografici, anche preistorici; naturalmente i più interessanti sono quelli che appartengono al periodo dell’età angkoriana e che hanno costituito un utile introduzione a quello che avremmo poi ammirato nei giorni seguenti. Quindi ci siamo recati, come di prammatica, al Palazzo Reale, costruito nella seconda metà dell’Ottocento sul modello di quello di Bangkok e che a dire il vero si segnala più per il suo sfarzo pacchiano e fuori luogo, come quello della pagoda d’Argento, materiale con cui sono realizzate le circa 5000 mattonelle del pavimento che per il suo reale valore artistico. Qui risiede l’attuale re Norodom Sihamoni, figlio di Norodom Sihanuk e che vanta anche ascendenze italiane da parte di madre. In realtà egli, celibe e senza progenie, potrebbe quasi definirsi un “re per caso” perché prima dell’improvvisa abdicazione del padre (2004) risiedeva a Parigi dove dirigeva un corpo di danza. Il sovrano sembra comunque molto apprezzato dalla popolazione per il suo carattere mite e la sua vocazione pacifista. La giornata a Phnom Penh si è conclusa con un’ottima cena in stile occidentale al Raffles Le Royal, dove abbiamo anche pernottato e che è effettivamente uno dei più begli alberghi della Capitale.
Tutti i quattro giorni seguenti sono stati interamente dedicati alla zona di Angkor e il mio resoconto non seguirà l’effettiva cronologia delle nostre visite ma piuttosto proporrà un graduale avvicinamento all’esplosione finale di Angkor Wat, Angkor Tom e Beng Melea, che al di là delle difficoltà logistiche andrebbero forse lasciate per ultime anche negli effettivi itinerari di viaggio, proprio perché ne costituiscono il degno coronamento.
La città da cui ci siamo sempre mossi è stata Siem Reap, località di circa 170.000 abitanti che deve la sua fortuna alla vicinanza con Angkor Wat e si presenta oggi come una località in piena espansione (anche grazie al profluvio di capitali cinesi), di grande fascino, ricca di ristoranti di pregio (come il raffinato Malis) e ottimi alberghi, come quello dove abbiamo soggiornato noi, l’Angkor Village Hotel, immaginato e realizzato dall’architetto francese Olivier Piot, in omaggio allo stile Khmer e formato da eleganti bungalow sparsi tra i rigogliosi giardini tropicali dell’hotel.
Ma Siem Reap si segnala anche per le sue eleganti boutique, come Smateria, dove la stilista italiana Elisa Lion propone le sue borse e i suoi prodotti di pelletteria tutti realizzati in Cambogia da artigiani Kmer secondo i principi del commercio equo e solidale. Qui abbiamo anche assistito ad un emozionante esibizione acrobatica del Phare the Cambodian Circus la prima sera e un raffinato spettacolo di danze tradizionali tenuto, insieme alla cena d’addio, nel bel Teatro Apsara, proprio di fonte al nostro albergo. Da non perdere nelle vicinaze di Siem Reap è poi il mercato galleggiante sul lago Tonle Sap, ancora più autentico e genuino di quello vietnamita sul Delta del Mekong ed autentica immersione nella vita cambogiana di tutti i giorni.
Il nostro giro nella zona di Angkor è iniziato con un impegnativo trasferimento da Phnom Penh a Sambor Prei Kuk, attraversando villaggi contadini con povere capanne a palafitte e macilenti bufali bianchi vaganti per le campagne. Durante il tragitto abbiamo effettuato una sosta presso un paesino dove vendevano frutta tropicale ma anche insetti commestibili di ogni tipo, che molti turisti gustavano entusiasti, ed è stato l’unico luogo di tutto il nostro viaggio dove siamo stati assaliti da una folla di bambini che vendevano per un dollaro frutta o oggetti di nessun valore, mentre ricordo che dodici anni fa queste brutte scene erano molto più frequenti. Oggi, almeno a quanto abbiamo potuto vedere, la grande maggioranza dei bambini e dei ragazzi cambogiani va a scuola, ed il fenomeno della prostituzione minorile, praticamente scomparso nelle principali aree urbane e intorno ai principali siti turistici, a quanto ci ha raccontato proprio la nostra guida locale, sembra ormai confinato nelle aree più povere ed emarginate del paese.
Tornando a Sambor Prei Kuk, è stata capitale dei Khmer prima d’Angkor ed è oggi un luogo poco frequentato dal turismo e proprio questo ne accresce il grande fascino. Le sue strutture in mattoni di laterite e “a capanna” ci ricordano quelle Champa già viste in Vietnam e sono databili a partire dal VII secolo dopo Cristo. Sono edifici in gran parte danneggiati o del tutto crollati, sparsi in una rigogliosa natura circostante che a volte sembra voler rivaleggiare con loro per la bizzarria delle sue forme. Alcuni di questi templi conservano, per quanto ormai molto deteriorate, delle fini decorazioni con immagini femminili e animali e sono anche sorvegliati da splendide figure di leoni ruggenti. Anche questo luogo è stato studiato negli anni ‘20 del Novecento dal grande archeologo francese Henri Parmentier, che già avevamo incontrato a My Son e ritroveremo ad Angkor Wat ed è stato proclamato patrimonio dell’Unesco dal 2017.
Altra località che abbiamo potuto ammirare in quasi splendida solitudine è stato il tempio di Banteay Srey, “la cittadella delle donne”. Realizzato in arenaria rosa nel 967 è uno dei più raffinati raggiungimenti dell’architettura kmer, con statue e bassorilievi di elegantissima esecuzione che avviluppano gli edifici quasi con una sorta di horror vacui e che sono “custoditi” da maestosi guardiani col corpo umano e il volto di scimmia. Si tratta di uno dei rari esempi di architettura kmer a non essere stata costruita da un re, ma da un certo Yainyavahara, funzionario di corte e considerato uomo di grande cultura e filantropismo. Qui si esercitava sia il culto di Shiva, nella torre centrale che quello di Vishnù nella sezione nord. E sono proprio le dimensioni ridotte del tempio e il suo eccezionale stato di conservazione a renderlo un autentico e imperdibile gioiello, come anche Mebon o Tempio o degli elefanti, che avremmo visitato poco dopo.
Per puro caso, prima di raggiungerlo, abbiamo incontrato per strada un gigantesco e socievolissimo pachiderma amorevolmente accudito da un’intera famiglia. Abbiamo potuto così stabilire che le gigantesche statue di elefanti che circondano Mebon sono incredibilmente somiglianti ai veri animali e testimoniano una abilità mimetica delle maestranze locali veramente ammirevole. Questa sorta di marcia di avvicinamento ideale ad Angkor Wat si può concludere con il Banteay Samre, costruito da Suryavarman II nella stessa epoca del suo più famoso gemello e anch’esso dedicato al culto del dio Vishnu, con le ennesime torri-santuario riccamente decorate e custodite da maestosi leoni giganti.
Veniamo ora proprio ai Templi di Angkor Wat e Angkor Thom, che quasi tutti i viaggi organizzati fanno visitare di seguito in un’unica giornata ma che sarebbe meglio dividere in almeno due tappe. L’intera area di Angkor (Patrimonio dell’umanità dell’UNESCO) è la più estesa area archeologica del mondo, con i suoi 276 monumenti di assoluta importanza.
Misura un perimetro esterno di 1.800 metri per 1.300, mentre il santuario centrale ha una superficie di 215 metri per 186. Si tratta in effetti di uno degli spettacoli più emozionanti del mondo, paragonabile per intenderci a Petra o al Machu Pichu e vi si giunge attraverso il ponte Naga, decorato ai suoi lati da un’impressionante sfilata di sculture che ritraggono dei e demoni che rappresentano le entità del bene e del male in bilanciamento tra loro: essi ci osservano giganteschi e impassibili con i loro volti di pietra e in qualche caso è veramente difficile distinguere i “buoni” dai “cattivi”, tanto le loro espressioni sono somiglianti.
Il complesso è stato eretto dal re-dio Suryavarman II tra il 1120 ed il 1150, anno della sua morte: originariamente concepito come un tempio indù è stato successivamente trasformato in un tempio buddista verso la fine del XII secolo. E’ il simbolo stesso della Cambogia, tanto da essere raffigurato sulla sua bandiera nazionale. Assolutamente imperdibile è la vista delle cinque torri-montagna che il perimetro delle mura racchiude, ma ancora più imperdibile è lo spettacolo dei milleduecento metri quadrati di raffinati bassorilievi che si snodano nei muri interni delle gallerie come un gigantesco libro narrando ora scene di feroci battaglie, ora di normale vita quotidiana, o ancora con la memorabile raffigurazione dei 32 inferni e 37 paradisi della mitologia Indù, una sorta di Giudizio Universale asiatico che aveva sicuramente per i cambogiani del XII e XIII secolo la stesa importanza di quella che il Giudizio Universale di Michelangelo ha avuto per i cattolici del XVI secolo.
Per un’accurata descrizione del complesso, che a dire il vero è tra quei cinque o sei luoghi che andrebbero visitati almeno una volta nella vita, non basterebbe un articolo dedicato e del resto si tratta di un monumento su cui esistono moltissime e accurate pubblicazioni, per cui preferisco invece concentrarmi su alcune considerazioni di carattere generale che già mi aveva suggerito la visita del Museo di Phnom Penh e prima ancora quella di alcune delle statue (tutte naturalmente raffiguranti Budda) tra le più belle in assoluto da me ammirate nello Sri Lanka. Ebbene, una civiltà artistica che fino al tutto il Medioevo era assolutamente comparabile con la nostra poi improvvisamente è come si avvitasse su se stessa, ingabbiata nelle sue strutture feudali, proprio mentre da noi “scoppiano”, è proprio il caso di usare questa parola, l’Umanesimo e il Rinascimento: in sostanza, ad una società collettivistica se ne sostituisce una individualistica, quella dell’homo faber suae quisque fortunae.
Già nel lontano 1980, nel mio primo libro Dalle botteghe alle Accademie, edito da Feltrinelli e subito esaurito (ma anche irriso da noti storici dell’arte sedicenti di sinistra anche se Marx non lo avevano letto nemmeno nei bignamini), avevo collegato il Rinascimento e segnatamente le figure di Brunelleschi e Leon Battista Alberti con l’avvento del paleocapitalismo, prima commerciale e poi industriale: in sostanza l’artista, da primus inter pares diventa colui che progetta e dirige il lavoro altrui (l’architetto) o il genio individuale libero ormai da ogni vincolo corporativo (pittori e scultori). I miei successivi viaggi in estremo Oriente e quest’ultimo in particolare, mi hanno confermato in questa convinzione. E senza voler fare del sociologismo d’accatto non può essere un caso che il Comunismo resista ancora proprio in Cina, Laos e Vietnam (e in parte in Cambogia che da quest’ultimo è di fatto controllata) dove si è passati direttamente da una società feudale o semifeudale ad una società di tipo marxista, senza passare attraverso il capitalismo industriale come lo abbiamo conosciuto noi. Ed anche questa sorta di “capitalcomunismo” ora vigente è qualche cosa di assolutamente nuovo e da noi assolutamente non compreso e nemmeno adeguatamente indagato, un qualcosa di fortemente aggressivo col quale dovremo sicuramente fare presto i debiti conti.
Come già detto subito dopo Angkor Wat e già sfiniti per il caldo e frastornati per il susseguirsi del profluvio di immagini, di solito tutti i Tour prevedono nel pomeriggio la visita della cittadella fortificata di Angkor Thom. Essa accoglie i turisti con le sue imponenti mura e le splendide porte monumentali fatte erigere sul finire del XII secolo dal grande re Jayavarman VII che ordinò anche la costruzione, al centro del quadrilatero fortificato, del Bayon, concepito inizialmente come tempio buddista e solo successivamente convertito all’induismo. Si tratta sicuramente di uno degli spettacoli più suggestivi e potenti dell’intera area archeologica, con la moltitudine di torri-santuario che circondano l’edificio centrale, al culmine di ognuna delle quali ci sono quattro enormi volti in pietra, orientati sui punti cardinali.
Ed a seguire ecco il grandioso santuario buddhista di Ta Prohm, che gli archeologi hanno lasciato volutamente quasi nelle identiche condizioni in cui fu scoperto dopo la metà del XIX secolo, con la foresta assoluta protagonista: altissimi alberi di Ficus gibbosa e di Ceiba pentandra avvolgono, con le loro gigantesche radici, le strutture delle gallerie e le mura perimetrali creando effetti di sorprendente e di selvaggia bellezza. In effetti, pur avendo già ammirato questi luoghi dodici anni fa, l’emozione riprovata è stata identica, come se un redivivo Arcimboldo o un pittore surrealista del primo Novecento fosse improvvisamente spuntato da qualche radice gigante per stupirci con i suoi effetti mirabolanti.
Gli stessi effetti che si colgono visitando il grande complesso di Beng Melea, un tempio con annesso il monastero immerso nella giungla che copre un’area di oltre un chilometro quadrato e che abbiamo raggiunto dopo un lungo percorso di una sessantina di chilometri. Ma la vista ben compensa la fatica del viaggio. Costruito nello stesso stile e dallo stesso re che costruì Angkor Wat, potrebbe addirittura esserne stato il prototipo. Quello che qui colpisce, come e più che ad Angkor Thom, è di come la vegetazione sembra aver preso possesso delle architetture, compenetrandosi in modo inestricabile con esse. Ed a me, che per deformazione professionale sono comunque abituato a ricondurre tutto entro un’ottica italocentrica, è venuta in mente quella celebre strofa della Gerusalemme Liberata ampiamente ripresa dai teorici classicisti: Di natura arte par, che per diletto l’imitatrice sua scherzando imìti. Dove in effetti distinguere tra arte e natura diventa impossibile, tanto gli edifici sembrano ormai essere diventati degli organismi viventi che chissà cosa hanno da dire su noi goffi disturbatori occidentali e gli alberi giganteschi hanno delle forme di inarrivabile audacia anche per il più geniale e moderno degli scultori o architetti.
E il nostro tour può concludersi, dopo un’altra settantina di chilometri, a Ko Keh, un altro complesso costituito da vari templi e monasteri, il più importante di quali contiene una grande piramide a sette gradoni che lascia molto perplessi per la somiglianza con altri siti dello stesso periodo, distanti migliaia di chilometri e naturalmente mi riferisco a certi templi Maya di Messico e Guatemala. Certamente proprio il loro isolamento e la loro natura selvaggia rende questi luoghi, spesso in piena fase di un recupero che appare comunque costoso e difficile e che si affida ancora alla generosità di nazioni come l’immancabile Cina, l’India, l’Australia o il Canada, particolarmente affascinanti. E l’Europa, in particolare la Francia che tanto avrebbe da farsi perdonare, mi chiedo cosa aspetti a farsi anch’essa protagonista. Comunque un altro dubbio, come quello che avevo ad Ha Long, mi sorge spontaneo: una volta che il turismo avrà ripreso il suo pieno ritmo sapranno in questi luoghi mantenere il dovuto equilibrio tra il benessere economico che ne deriverà e la tutela ambientale necessaria per preservarli? Ai posteri l’ardua sentenza.
Sergio ROSSI 12 Febbraio 2023