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Rossana Castrovinci, Vincenzo Tamagni da San Gimignano. Discepolo di Raffaello, De Luca Editori d’Arte, Roma, 2018*
Lo studio realizzato da Rossana Castrovinci, da poco in libreria per i tipi di De Luca Editori d’arte, mette in risalto una figura ruotante nell’atelier di Raffaello, quella di Vincenzo Tamagni (San Gimignano, 1492 – post 1530) certamente un minore tra quanti frequentarono quel variegato mondo artistico, ma in grado di ottenere numerose occasioni per mettersi in luce, da solo o al fianco di altri artisti, nella realizzazione di imprese pittoriche, soprattutto, ma non solo, ad affresco, in particolare tra la Toscana e l’Umbria, oltre che a Roma. E tuttavia, come vedremo e come del resto appare evidente scorrendo le pagine del libro (senza contare che lo scrive la stessa autrice), il Tamagni si espresse in modo più probante nel disegno che non nella pittura. E certo ciò fu il risultato degli anni di apprendistato che, ancorché ancora piuttosto in ombra, tuttavia gli diedero sicura occasione di frequentare ambiti ed artisti assolutamente convinti dell’incontestabile “primato del disegno” cui tutti erano assolutamente votati. Come nota Alessandro Zuccari in una breve ma efficace Premessa “un posto di rilievo spetta alla sua produzione grafica … rapida ed incisiva”, e comunque è vero che “il pittore trova nell’affresco la tecnica a lui più congeniale”, laddove, pur tra impedimenti ed impacci, come si vedrà, “mostra di aver assorbito prima della lezione dell’Urbinate, tutta la tradizione umbro – toscana, in particolare di Perugino, Benozzo Gozzoli e Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma”.
Sul debito contratto nei confronti di quest’ultimo, così poco apprezzato dal Vasari com’è risaputo, non ci sono dubbi di sorta; al contrario, non è del tutto chiara la circostanza che indusse il nostro ad intraprendere la carriera artistica, forse iniziata presso Sebastiano Mainardi, che fu seguace del Ghirlandaio e che effettivamente ebbe a frequentare la città natale di Tamagni, San Gimignano, per eseguire alcune commissioni; ma in realtà l’autrice, sulla base di alcune ipotesi già formulate da parte di altri studiosi, sembra credere più ad “un precoce apprendistato presso la bottega di un pittore locale, tale Giovanni di ser Piero Cambi” di cui molto poco si sa. Quel che è sicuro è che “l’effetto di una scossa” sul sangimignanese lo provocò senza dubbio l’incontro con il Sodoma, avvenuto già nel 1505 in occasione della realizzazione degli affreschi nel chiostro del monastero benedettino di Monteoliveto da parte del vercellese, con cui evidentemente il nostro collaborò, se è lui quel “Vincenzo” che compare nel libro paga dei monaci, al quale spetterebbe il tondo con la Madonna col Bambino e san Bernardo Tolomei, che la Castrovinci gli attribuisce inserendolo al primo posto nel catalogo dei suoi dipinti (fig 1). fig 1
Fu quanto avvenne in questa circostanza che diede modo al Vasari di mettere il Sodoma in cattiva luce; secondo il suo non disinteressato racconto, infatti, il vercellese “il quale era così nel dipingere come nelle altre sue azioni, disonesto”, avrebbe scandalizzato i canonici della regola benedettina perché “ … fece un ballo di femmine ignude, disonesto e brutto affatto, e perchè non gli si sarebbe lasciato fare, mentre lo lavorò non volle mai che niuno dei monaci lo vedesse” però la cosa venne scoperta e visto che il padre generale “la voleva gettar per ogni modo a terra … dopo molte ciance, vedendo quel padre in collera rivestì tutte le femmine ignude di quest’opera …” (per le citazioni cfr Daniele Radini Tedeschi, Sodoma, ed. Rosa dei Venti, 2010, p. 16). Da qui il soprannome di “Mattaccio” e la riprovazione generale.
La collaborazione di Tamagni con il Sodoma sarebbe comunque continuata oltre questa più che probabile evenienza, ma il connubio s’interruppe presumibilmente nel 1510 o al più ai primi del 1511, allorquando, impegnato a Montalcino ad affrescare due cappelle nella ex chiesa di San Francesco, veniva incarcerato per un debito non onorato verso il suo maestro; la confessione, datata giugno 1511, e la remissione del debito, calcolato in 25 ducati d’oro, somma tutt’altro che trascurabile al tempo, consentirono all’artista di tornare in libertà. Secondo la Castrovinci il debito risalirebbe al “periodo romano” dato che appare credibile che il sangimignanese possa essere arrivato a Roma a cavallo tra il 1508 e il 1509 accompagnando il Sodoma, chiamato da Sigismondo Chigi per lavori “nell’appartamento di Giulio II in Vaticano” e precisamente “in camera superioribus S. D. Papae”, lavori che come si sa conobbero un triste destino, inesorabilmente spazzati via dal travolgente vento di rinnovamento di Raffaello che sedusse letteralmente il pontefice, e che finì col “guastare”, come tramanda il Vasari, gli affreschi del Sodoma nella Stanza della Segnatura. Resta però il fatto che proprio grazie alla malleveria del maestro “il nostro Vincenzo – come scrive la Castrovinci– deve aver potuto vedere con i suoi occhi Raffaello e forse Michelangelo” il quale com’è noto in quella data, nel 1508, aveva alzato i ponteggi alla Sistina. Secondo la studiosa, fu soprattutto “la conoscenza di Raffaello e della sua opera”, e quindi l’impatto visivo con i lavori del genio di Urbino, a produrre nel sangimignanese un effetto determinante. Né ci appare difficile immaginare perché, se consideriamo che il Sanzio, già negli anni in cui il Tamagni lavorava da apprendista, aveva maturato un patrimonio di contatti e conoscenze da cui sarebbe scaturito un alfabeto pittorico di importanza capitale. E’ opinione consolidata infatti che già attorno alla metà della prima decade del ‘500 egli fosse in grado di aprirsi alle influenze dei grandi del momento, come Michelangelo e Leonardo; del primo, come ha scritto Jurg Meyer Zur Cappellen, si pensa che Raffaello possa aver tenuto presente il Tondo Doni “un testo che senza dubbio ha influenzato Raffaello come anche altre sculture di Michelangelo”, mentre una “ricezione diretta di Leonardo” sempre secondo lo studioso tedesco, la si noterebbe, ad esempio nella Pala Baglioni, laddove se è vero che “l’arte di Leonardo funge ancora da modello per Raffaello” è altrettanto vero che “il confronto con essa avviene ora su un piano più alto, più intellettuale” (Cfr. J. M. Zur Cappellen – C. Falcucci, La Madonna dell’agnello. Indagini diagnostiche, Roma, 2008). Un piano che Vincenzo Tamagni in verità non avrebbe mai neppure immaginato di poter sfiorare. E la Castrovinci, assolutamente obiettiva e ben lontana da un ‘effetto Stendhal’ nei confronti dell’autore che studia, lo fa notare più di una volta. Del resto non è affatto agevole pensare che dopo aver potuto osservare i capolavori di Michelangelo o di Raffaello in Vaticano –sempre ammettendo che ciò sia avvenuto- il Tamagni, negli affreschi effettuati subito dopo a fianco del Sodoma a Subiaco (le Storie della Vergine, nella Chiesa di san Francesco), concepisca figure schematiche, dalla “plastica dura e lignea”, con ”il contorno grosso e netto che le definisce tutte” dove è evidente “la fissità delle scene e la goffaggine di alcuni personaggi”; sono, scrive ancora l’autrice “tutti elementi che troviamo negli affreschi sopraccitati del Tamagni e anche in opere successive”, anche se certamente non in tutte. Risalgono in effetti a questa fase, precisamente all’anno 1510, anche opere meno modeste e “legate forse alla fama che il sangimignanese stava acquisendo in questo periodo”, in particolare va segnalato un Compianto su Cristo morto che è “da considerare una delle opere migliori del sangimignanese” (fig 2).
Il contesto peraltro sembra favorevole in generale per molti di coloro che gravitano nell’orbita giusta, vale a dire quella saldamente inserita nell’ambiente delle committenze pontificie. Il motivo è presto spiegato. Il pontefice Giulio II “molto ambizioso nonché abile stratega” ed anche grande mecenate (ancorché di manica stretta) sta promuovendo “una grande trasformazione urbanistica ed architettonica” di Roma; dopo aver costretto Venezia, in seguito alla fatale giornata, per la Serenissima, della Ghiara d’Adda, a restituire i territori che gli interessava recuperare, minacciando altrimenti di riportare i Veneziani “ad essere quello che erano stati, cioè dei miserabili pescatori”, il Papa-guerriero delinea un vero piano di rilancio della città eterna come faro del cattolicesimo; per questo vuole a sua disposizione i più grandi architetti e artisti dell’epoca, ovviamente senza trascurare i veneti come Sebastiano del Piombo e Giovanni da Udine ad esempio, scesi insieme a Roma nell’estate del 1511, tanto più che nessuno, né tra costoro né tra i governanti delle città dove essi risiedono, poteva pensare di poter soprassedere all’ “invito” del papa. Si veda proprio il ‘caso’ di Raffaello: “Possiamo solo immaginare –ha scritto W. Roger Rearick– il misto di costernazione ed aspettativa che accolse l’arrivo dell’invito per Raffaello da parte di papa Giulio a lasciare Firenze in favore di nuove impegnative responsabilità nella città papale”, dove l’artista, venticinquenne, è effettivamente segnalato già agli inizi del 1509. E c’è da credere che lasciare all’improvviso la città gigliata, dove aveva lavorato duramente per quattro anni ottenendo riconoscimenti ed uno status che gli stavano fruttando commissioni di grande rilevanza, non avvenne senza un qualche smarrimento da parte dell’artista di Urbino. Si sa del resto che egli era impegnato in lavori di notevole importanza, il più famoso dei quali era la monumentale Madonna del Baldacchino, commissionatagli nel 1507 per la Cappella Dei in Santo Spirito (ora a Palazzo Pitti), un’opera che “prometteva di cementare la sua carriera sul posto e richiedeva un formato di eccezionale grandezza tale da potersi ritenere Romano ante litteram” (Rearick) ma che rimase invece incompleta, come d’altra parte altri dipinti iniziati ma non terminati. Il fatto era che “Giulio non era un mecenate da far attendere con il pretesto di lavori in essere” e dunque Raffaello lasciò Firenze senza farvi più ritorno, ma iniziando un vero e proprio dominio della scena artistica del tempo.
Ma come dicevamo, il momento è in generale molto favorevole per lo sviluppo delle arti ed anche per Vincenzo Tamagni si aprono varie occasioni di lavoro; egli sembra spostarsi di città in città, tanto che per un non breve periodo se ne perdono addirittura le tracce; in effetti “esiste un buco di quattro anni tra i lavori di Montalcino … e quelli compiuti con Giovanni da Spoleto ad Arrone”, i primi risalenti al 1510 – 12, come si è visto, questi altri databili al 1516; si tratta degli affreschi nell’abside della chiesa di Santa Maria ad Arrone (fig 3), appunto, giudicati dalla Castrovinci “una delle più importanti testimonianze della cultura raffaellesca in territorio umbro”.
Secondo la studiosa è possibile che già a partire dal 1513 “il Tamagni fosse entrato nella equipe di Raffaello”; del resto nella Loggetta della Stufetta del Cardinale Bibbiena, Nicole Ducos “ha riconosciuto la mano del Tamagni in due parti della decorazione”; per quella impresa Raffaello aveva approntato i cartoni senza però intervenirvi direttamente ma limitandosi a guidare i suoi assistenti; se così fosse, scrive la Castrovinci “si potrebbe trattare del primo intervento del sangimignanese in uno dei tanti cantieri che aveva Raffaello”. Successivamente, nel 1517, lo troviamo tra i collaboratori impegnati con l’urbinate nelle Logge vaticane ed in particolare gli spetterebbe, secondo la magistrale ricostruzione operata dalla Ducos concernente le differenti parti realizzate dagli assistenti di Raffaello, il riquadro con la consacrazione di Salomone. Ma l’opera si presenta di una qualità così mediocre da indurre addirittura la Castrovinci a ipotizzare che l’artista di San Gimignano eseguisse in autonomia, cioè “su propri disegni” questo riquadro nel tentativo, evidentemente andato a vuoto, di “adeguarsi alle opere dei compagni, in primis Giulio Romano e il Penni”.
La tesi della studiosa lascia aperto un problema che merita ulteriori considerazioni, come vedremo più avanti, e tuttavia non appare affatto peregrina, se la inseriamo nel contesto in cui la questione ebbe a maturare e che occorre sia pure brevemente ricostruire. E’ noto che nel corso del 1517 l’attenzione di Raffaello verso gli affreschi delle Logge – in particolare della Stanza di Borgo– venne in parte a diradarsi per la sopraggiunta impresa della Sala detta dei Palafrenieri, un ambiente che il pontefice Leone X riteneva di maggior rilievo e “di grande importanza cerimoniale”, visto che egli “vi teneva le vestizioni e i concistori segreti”, senza contare che il cartiglio con le parole “Dei non hominum est episcopos judicare” (dove appare Leone III che respinge dinanzi a Carlo Magno le accuse dei nipoti di Adriano I) alludeva chiaramente al principio della responsabilità del Pontefice esclusivamente verso Dio: principio anticipatore di quanto poco tempo dopo si sarebbe apertamente proclamato nella lotta senza quartiere contro Lutero. In questi frangenti, l’urbinate, sopraffatto dalle commissioni, diviene sempre più “principe della Sinagoga” –come lo definiva con disprezzo Sebastiano del Piombo- e non può che consegnarsi all’arbitrio della bottega. Una bottega però tutt’altro che unita e collaborativa:
“da un lato Giulio Romano che è il più autoritario, anche il più prepotente; contro di lui Giovanni da Udine e Perin del Vaga: quando il Penni, che al momento è incerto, si affianca a Giulio Romano, costui potrebbe davvero sentirsi l’erede di Raffaello e non solo per disposizione testamentaria (… ) Lo scontro avviene, e frontale, durante i lavori di decorazione della “Vigna” di cui, ancora nel 1516, il cardinale Giulio de’ Medici aveva ordinato la costruzione alle falde di Monte Mario, su progetto di Raffaello: l’attuale villa Madama” (cfr E. Bartolini, Giovanni da Udine, La Vita, Udine, 1987, p. 3)
Non è allora difficile immaginare, come scrive la Castrovinci, che in una contingenza come questa che abbiamo appena sommariamente delineato il Tamagni “dà la sensazione di non trovarsi a proprio agio nell’ambiente romano”. Ed in effetti incapace di mantenere e sviluppare una propria originale linearità espressiva e non sapendo probabilmente a quale ‘partito’ potersi collegare, il nostro, anche perché “consapevole dei propri limiti”, come scrive la studiosa, non si mostra in grado di sviluppare davvero non diciamo il linguaggio del grande urbinate, ma neppure di conformarsi a quello dei suoi più efficaci collaboratori, rimanendo come incastrato nei suoi limiti.
Certo è che non fu solo lui ma anche altri che ebbero a frequentare la bottega di Raffaello a fallire nell’intento di avvicinare –senza mai arrivarci naturalmente- i vertici toccati dall’urbinate, come invece si può dire – in modi certamente diversi- di Giulio Romano o del Penni, o anche di Perino del Vaga o di Polidoro, per non dire di Giovanni da Udine; al contrario, altri, e non pochi, rimasero ancorati ad una espressività limitata, ad un modus operandi non di rado accidentato, ad una vena creativa posticcia quando non languente; basti osservare lo stacco a volte clamoroso tra quanto è di sicura mano di Raffaello e quanto invece è della bottega nei lavori ad affresco di varie imprese pittoriche. E’ una questione certamente non relativa solo all’equipe di Raffaello e non pertinente solo al tempo del Rinascimento, perché è del tutto ovvio che i seguaci di Michelangelo non potevano eguagliare Michelangelo, come pure ben distanti dai grandi geni dell’arte di tutti i tempi, restarono mezzo secolo dopo i seguaci di Bernini o di Rubens, per non dire di Caravaggio, e via via fino ad arrivare all’età contemporanea, dal momento che il genio è unico ed individuale. Tuttavia colpisce, almeno nel caso che ci riguarda, la disomogeneità in qualche caso dirimente che si registra nell’ambito del raffaellismo, dove addirittura verrebbe da pensare – e del resto così è stato sostenuto da qualche commentatore- che l’esempio operativo del maestro abbia in qualche modo per alcuni seguaci operato al contrario, riducendone o ridimensionandone la “felicità immaginativa”. Nel ragguardevole lavoro di analisi e ricerca su Tamagni, l’autrice non affronta –né peraltro era questo l’oggetto del suo studio- il tema che però riguarda anche il ‘suo’ artista, e in ogni caso gli alti e bassi con cui questi operò in pittura fanno pensare ad una mano che possa essere stata frenata fors’anche da remore di carattere psicologico, magari frutto di un malinteso ed irrisolto senso di appartenenza, come accennavamo precedentemente, che anziché stimolare frenava, visto che non si può pensare ad un cattivo apprendimento, se consideriamo –e lo si è detto- quanto invece fossero adeguate le sue prove grafiche. Tanto può essere vero questo discorso, se consideriamo che, nonostante il pittore toscano non apparisse – come scrive l’autrice- “in linea coi tempi”, egli tuttavia continuò a prendere parte alle imprese decorative commissionate a Raffaello, come nel caso della decorazione della Villa Farnesina. Ed anzi a parere della studiosa chi eseguì gli affreschi ed approntò i disegni preparatori per le scene del fregio che corre sotto il soffitto –solitamente ritenuto di mano di Baldassarre Peruzzi- fu proprio Vincenzo Tamagni, affiancato da Giovanni da Spoleto e forse da Maturino da Firenze. Su quella che è stata definita la “Bibbia di Raffaello” che si snoda come si sa per tredici volte ognuna con quattro ‘storie’ per un totale di cinquantadue, misero le mani vari autori, da Giulio Romano a Gianfrancesco Penni, da Perin del Vaga a Polidoro da Caravaggio, da Tommaso Vincidor a Pellegrino da Modena fino al nostro Vincenzo, secondo l’elenco vasariano. Appena ebbe modo di vederla Baldassare Castiglione non poté che scriverne in modo entusiastico ad Isabella d’Este, in una lettera del 16 giugno del 1519 “Ed hor si è fornita una loggia dipinta et lavorata da stucchi alla anticha: opra di Raphaello, bella al possibile”. Un giudizio ribadito qualche anno dopo da Giorgio Vasari: “Si può dire, con buona pace di tutti gli altri artefici, che, per opera così fatta, questa sia la più bella, la più rara, la più eccellente pittura che mai sia stata veduta da occhio mortale”.
Si deve forse credere che il Tamagni –citato, come si è visto, tra gli artefici del complesso pittorico- fosse in qualche modo salito di qualche scalino nella considerazione degli altri comprimari per non dire del grande maestro? E’ possibile che qualcosa del genere sia accaduto se è vero che proprio Raffaello gli avrebbe lasciato l’esecuzione dei dipinti della facciata di palazzo Battiferro, di cui aveva approntato i cartoni (ma né gli uni né gli altri sono giunti fino ai nostri giorni) nonché l’ esecuzione dei lavori per la “facciata di un palazzo di fronte a quello di Giovanni Battista dell’Aquila”, come riporta ancora il Vasari. Ma fu quella l’ultima occasione di una collaborazione col genio urbinate, dal momento che questi sarebbe scomparso di lì a poco, il 6 aprile 1520, lasciando un vuoto incolmabile e l’avvio di uno scontro senza esclusione di colpi fra i suoi più stretti ed accreditati seguaci. Non passa infatti neppure una settimana dalla sua scomparsa che immediatamente si apre la lotta per “l’egemonia attorno ai maggiori lasciti raffaelleschi”; il primo a farne le spese è Sebastiano del Piombo –peraltro già fuori dagli stretti circoli dei seguaci dell’urbinate- che tramite Michelangelo Buonarroti aveva sollecitato, al cardinale Giulio de’ Medici, proprio a ridosso della scomparsa del geniale artista, l’incarico per realizzare, dai cartoni di Raffaello, la decorazione che, nella Stanza di Eliodoro e dell’Incendio di Borgo, avrebbe completato la celebrazione ideale e storica del papato. Ma, come scrisse al suo mentore quattro mesi dopo, quest’incarico era naufragato e Sebastiano aveva dovuto prendere atto che chi era in possesso dei cartoni di Raffaello si rifiutava di consegnarglieli. Fu Giulio Romano in effetti a prendere in mano le redini della situazione insieme al Penni, ma l’improvvisa scomparsa di Leone X –su cui ancora grava il sospetto di una morte innaturale, se si dà fede al noto passo del Guicciardini sulla Storia d’Italia: ”credettesi per molti, nel primo tempo del pontificato, che e’ fusse castissimo; ma si scoperse poi dedito eccessivamente, e ogni dí piú senza vergogna, in quegli piaceri che con onestà non si possono nominare“- fermò temporaneamente ogni cosa :” Spaventò la morte di Leone talmente gli artefici e le arti ed in Roma ed in Fiorenza che mentre che Adriano VI visse Michelagnolo s’attese in Fiorenza …” scrisse Vasari, ed effettivamente la salita sul trono pontificio del prelato olandese non parve poter riavviare le cose, dal momento che una delle prime prese di posizione del nuovo papa, scandalizzato dagli eccessi del periodo leoniano ma in genere dell’epoca rinascimentale – l’epoca della “paganità” la definiva- e già chiamato a fronteggiare l’incalzante propaganda antipapista dei luterani, era stata che “non voleva aver nulla a che fare con la setta dei poeti”. In una Roma del genere, poco spazio poteva avere un comprimario come Vincenzo Tamagni, già di per sé piuttosto avulso in quest’ambiente, come sostiene la Castrovinci, tanto che fu con ogni probabilità solo grazie ad una “raccomandazione” di Polidoro da Caravaggio che poté ottenere la decorazione di alcune sale di palazzo Farnese a Gradoli, collocabile tra il 1521 e il ’24, se si accetta la attribuzione – che la Castrovinci accoglie- già avanzata da Flaminia Gennari Santori, che per prima pensò di attribuire le decorazioni “alla mano di Vincenzo Tamagni”. In questo periodo, tuttavia, l’artista ebbe modo di tornare a San Gimignano realizzando opere importanti, come la Madonna in trono col Bambino e santi e soprattutto la Natività della Vergine (fig 4)
che la critica più avvertita considera “il capolavoro dell’artista, per la foga compositiva nella quale si fonde e si intensifica con effetti di grande forza, quella certa grossolanità pittorica che è il limite maggiore dell’arte del Tamagni”. Si tratta di un giudizio piuttosto curioso –applicato ad un’opera giudicata alla stregua di un “capolavoro”- che potrebbe sorprendere se non avessimo già inquadrato –seguendo la efficace ricostruzione dell’autrice- gli esiti dei componimenti del pittore di San Gimignano nella categoria dei seguaci di Raffaello potremmo dire “a scartamento ridotto”. Ed ancor più sorprendente può apparire il giudizio della Castrovinci secondo cui questo ‘capolavoro’ l‘artista lo avrebbe elaborato allorquando “abbandona la tendenza artistica della cultura raffaellesca per tornare ad uno stile semplice e genuino che era, crediamo, più nelle sue corde”; uno stile, insiste l’autrice, a guardar bene neanche senese bensì “frutto di una cultura provinciale appresa alla bottega di un artista minore come fu Giovanni Cambi”.
Verrebbe a questo punto da chiedersi, se sia stato possibile che anni di frequentazione nella bottega più famosa e importante del tempo, quella di Raffaello, dove come è stato scritto gli apprendisti imparavano come utilizzare i colori “per quindi trarne, in un’applicazione talmente continua da farsi naturalezza, una festosità disimpegnata ma non futile, adoperandoli con meraviglia per gli altri, soddisfazione e guadagni per sé” (Bartolini), se insomma sia stato possibile, dicevamo, che quell’esperienza si fosse ridimensionata al punto da poter riesumare uno stile così modesto ed indifferenziato come c’è da ritenere fosse stato quello di Giovanni Cambi. Anche in questo caso il tema andrebbe approfondito. Si potrebbe credere che il Tamagni abbassasse consapevolmente il tiro, per così dire, nella consapevolezza che così facendo le immagini rivolte ad un pubblico non propriamente colto assumessero un maggior potere di suggestione, ampliandone in qualche misura l’impatto educativo? Questa effettivamente appare la tesi dell’autrice del nostro volume. Va tenuto però in considerazione che per tutta la cultura cristiana le immagini costituivano da tempo quella Biblia Pauperum che sostituiva la scrittura e dunque che fossero semplici o complesse, di resa modesta o eccelsa, il loro esito finale doveva in ogni caso accordarsi a quel canone, ossia essere funzionali alla trasmissione più ampia possibile del messaggio religioso. Né, e a maggior ragione, poteva essere altrimenti di fronte all’incalzare della propaganda luterana che stava superando i confini della Bassa Sassonia ed imponeva una subitanea reazione. Esplicatasi attraverso l’uso massiccio di xilografie, incisioni e pubblicazioni in lingua tedesca – basti pensare che “all’inizio del XVI secolo si stampavano in lingua tedesca solo una quarantina di titoli, mentre nel solo 1519 ne comparvero ben 112 nuovi” e “nel 1523 erano diventati 498, un terzo dei quali opera dello stesso Lutero” (cfr R. W. Schribner, Per il popolo dei semplici. Propaganda popolare nella Riforma tedesca, Mi 2008) – la propaganda protestante si basava essenzialmente su immagini a stampa che riportavano le figure dei cardinali romani, dei vescovi e di monaci e monache intenti a crapule e copule e ad ogni altra nequizia, nemici del Vangelo e dello stesso Cristo, assertori della falsa religione, capaci di condurre a dannazione quanti li seguivano, e il papa come l’autentico Anticristo. Lutero, al contrario, nei numerosi ritratti poi divulgati con incisioni e stampe, appariva in versione decisamente propagandistica: “come monaco è colui che conduce una pia vita cristiana, come dottore è il pio docente, come uomo della Bibbia è colui che indica la dottrina della salvezza”. In questo modo le immagini per il popolo degli illetterati e semi o completamente analfabeti riuscivano a svolgere un compito comunicativo di grande efficacia. Ma, scrive la Castrovinci, Clemente VII (Giulio de’ Medici) il nuovo pontefice, salito sul trono di Pietro dopo il breve pontificato di Adriano “comprese con molto ritardo la gravità della situazione religiosa” (e non fu il solo, occorre aggiungere) e il Giubileo, da lui indetto nell’anno 1525 “da grande momento di unità e riconciliazione viene avvertito come segno di divisione nel mondo cristiano”. E’ un periodo che artisticamente non può che risentire tematicamente dell’atmosfera che si comincia respirare. Si sa bene che i protestanti si accanivano particolarmente sulle immagini della Vergine: ”L’accusavano –ha scritto Emile Male– di essersi sostituita al Cristo perché secondo loro era diventata essa stessa oggetto di culto e non il Figlio di Dio” e del resto, sempre secondo Lutero, il suo stesso nome indicava “una piccola goccia d’acqua in confronto al mare” (Male, p. 45). Ma ancor più bersaglio della propaganda di tutte le componenti eretiche, luterane, calviniste o zwingliane, era il papato “nella convinzione che scardinandolo avrebbero affrettato la rovina della Chiesa cattolica” (ivi). Ed in questo senso va considerata la rilettura di passi delle scritture oltre ed anzi contro le interpretazioni tradizionali, in particolare rispetto al “primato di Pietro”, obiettivo essenziale della azione e della propaganda antipapista: ”Secondo loro –scrive ancora Male– quando Cristo affermò ‘tu sei Pietro e su questa pietra erigerò la mia chiesa’ intendeva dire che la chiesa avrebbe avuto come fondamenta lo stesso Gesù poiché non vi è altra pietra che Cristo”. Ma c’è di più; secondo la propaganda luterana :”nelle sue epistole san Pietro non ha mai fatto allusione al primato della chiesa di Roma” ed anzi “san Pietro non è mai andato a Roma ed è probabile che sia morto a Gerusalemme” (Male).
A fronte di ciò, certo non si può dire che si stesse già attuando a Roma, attraverso scenografie adeguate, una precisa ‘politica’ per immagini per contrastare quella luterana, dal momento che in questi anni da noi la polemica contro l’eresia era ancora ristretta al campo dei teologi e degli alti prelati e svolta attraverso trattati e dispute disciplinari, considerando inoltre che solo qualche anno più tardi, tra il 1535-40 e il 1560, e poi negli anni successivi essa avrebbe avuto sviluppi e conseguenze a volte anche spietate. E tuttavia non ci appare un azzardo credere che una così ampia e per molti aspetti efficace opera di propaganda antipapista ultramontana non travalicasse le Alpi e magari trovasse una prima forma di simpatia quanto meno tra chi qualche anno dopo ne abbraccerà apertamente le tesi. Se dunque non è sicuramente agevole ritenere che si fosse già decisa una reazione che attraverso l’uso delle immagini rispondesse ad una conclamata attività antiluterana, tuttavia non ci appare un azzardo credere che questa non trovasse una qualche contromisura già prima dell’assise e dei decreti di Trento.
Se accettiamo tutto questo, allora non sarà stato casuale che uno dei lavori più impegnativi e nello stesso tempo significativi, cui peraltro venne chiamato a sovrintendere Polidoro da Caravaggio, uno degli artisti “più richiesti dai grandi committenti romani dopo al morte di Raffaello”, fosse, proprio nell’anno giubilare, la decorazione della facciata della basilica di San Pietro in Vincoli. Un evento che in effetti racchiude molti spunti simbolici. Intanto per la figura del titolare della basilica, il cardinale Alberto di Brandeburgo, figura canonica di estremo rilievo, oltre che “protettore di artisti e letterati”, deciso a lasciare in quel luogo sacro “un forte segno del suo titolariato”, consistente, come coglie bene la Castrovinci “a dedicare una stanza ad una delle reliquie più importanti presenti in Roma esaltando quei canoni della dottrina cattolica messi in discussione non solo da Lutero ma in questi stessi anni da Zwingli e Calvino in Svizzera”. Di qui, dunque, il portato fortemente polemico, probabilmente il primo che appare così lampante in funzione anti eretica in un testo artistico religioso.
Assieme al caravaggino Polidoro, partecipò a questa impresa anche Vincenzo Tamagni e lo stesso Maturino, che ritroviamo insieme anche nel cantiere di Villa Lante, dove, secondo la Ducos, si riconosce la mano del sangimignanese nella Incoronazione della Vergine (fig 5)
e dove è opportuno notare come l’artista passi eccezionalmente ad un “peruginismo di maniera influenzato dall’arte del Brescianino e del Beccafumi” secondo la Castrovinci, visto che “in altre opere commissionate al Tamagni in questo periodo il punto di riferimento sarà proprio Raffaello o più esattamente i suoi due allievi diretti, cioè Giulio Romano e Giovan Francesco Penni”.
Secondo la studiosa, il ritorno dell’artista a Roma dovette costituire una sorta di rinnovato slancio, grazie anche all’incontro con i vecchi amici con alcuni dei quali riprese a collaborare in vari cantieri. Ma all’alba del 6 maggio del 1527 le cose prendono una direzione del tutto imprevedibile: la guerra, di cui a Roma si è fino a quel momento soltanto parlato, diviene una triste realtà: ”Se arrivo a Roma voglio impiccare il papa con tutti i suoi cardinali” minacciava il capitano tirolese Georg von Frundsberg, alla testa dei quattordicimila soldati, in gran parte lanzichenecchi protestanti, al soldo di Carlo V. Si dice che un colpo apoplettico stroncò le sue minace prima che le potesse mettere in pratica, e tuttavia la soldataglia luterana invase ugualmente la città sotto la guida di Carlo III di Borbone, già connestabile di Francia e soprattutto cattolico. Offeso dal comportamento di Francesco I che si era impossessato dei beni della moglie, il Borbone, si era messo alla testa delle truppe imperiali; succedeva così che un comandante cattolico al servizio dell’Imperatore anch’egli cattolico, stava invadendo la capitale del cattolicesimo. Proprio lui però fu tra i primi ad essere colpito dal piombo dei –pochi- difensori della città probabilmente sparato da Benvenuto Cellini, il quale com’è noto ne rivendica l’uccisione nella sua Vita, ma è anche possibile che l’autore del micidiale colpo fosse Giovanni da Udine che in effetti aveva fama di ottimo cacciatore e che avrebbe colpito il Borbone “con una archibugiata al capo” se accreditiamo come vero il resoconto del Bartolini (vedi p. 66).
In ogni caso la tragedia del sacco di Roma, le cui vicende hanno interessato gran parte della pubblicistica fino ai giorni nostri, costringe molti artisti tra coloro che collaboravano con Raffaello a lasciare la città; tra costoro anche Vincenzo Tamagni che rientrato nella sua città dipinge l’Assunzione della Vergine con i santi Sebastiano, Tommaso e Rocco, per l’oratorio dedicato a San Rocco a Montalcino.
Ed anche in questo caso è difficile non inquadrare la composizione nel suo effettivo contesto, cioè nel clima di sconforto e smarrimento seguito all’abbandono di Roma. Al ricordo ancora ben presente di un mondo vivo e vario espressione di mondana magnificenza e soprattutto culturalmente affascinante, nonché del più grande ed importante centro letterario ed artistico, si sovrappone qualcosa di molto diverso: oltre alle devastazioni del ‘sacco’, oltre alla guerra, l’inevitabile seguito di mancanza di raccolti, carestia, pestilenze: ”… le lunghe liste mortuarie dei cronisti –commenterà von Pastor- non lasciano alcun dubbio sulle realtà delle stragi”. Ecco dunque la rappresentazione della Vergine unita ai santi Sebastiano e Rocco che supplicano il Signore di preservare o interrompere il flagello. E’ un’opera che a parere della Castrovinci dimostrerebbe come “Tamagni nella sua produzione artistica tenesse due registri differenti: uno per le opere romane, destinato ad una clientela di gusto aggiornato, e un altro per le opere commissionategli in provincia di più semplice lettura e comprensione, legato ancora ad una cultura quattrocentesca”.
Ad essa seguono altre opere caratterizzate dalla stessa atmosfera di smarrimento e nello stesso tempo di devozione come la Madonna della Misericordia e più avanti di qualche mese una “più interessante Madonna col Bambino” (fig 7) chiaramente ispirata alla Madonna del Sacco di Andrea del Sarto, anche questa significativamente realizzata dall’artista fiorentino dopo una terribile pestilenza.
Altre opere vengono composte a ridosso della fine del secondo decennio, che la Castrovinci riporta con precisione, senza tralasciare giudizi non proprio esaltanti per alcune di esse (“composizione non omogenea, né armonica” o di nuovo “si nota una certa arcaicità e insicurezza in alcune parti”) ma che, come si è visto, non sono rari nelle prove del sangimignanese.
Lasciamo a questo punto al lettore il giudizio che l’indagine e gli approfondimenti proposti in maniera sicuramente esauriente da Rossana Castrovinci fa nascere su Vincenzo Tamagni; certo è che il libro rivela uno spaccato, per quanto limitato, di un mondo, e ci mette di fronte ad una realtà, quella dei seguaci di uno dei grandi geni dell’arte di tutti i tempi, con un’analisi che forse per la prima volta ne rimarca in modo così completo ed obiettivo i limiti e i confini; per questo il volume segna un punto importante che non potrà essere trascurato dagli studi successivi.
*Le immagini sono dell’archivio dell’autrice
P d L Roma 1 dicembre 2018