Wicky Wilhelm Scotese, la vita e l’opera di un’artista della Scuola Romana

di Elena TAMBURINI

Wicky Wilhelm Scotese: una romena discepola della Scuola Romana

1. Wicky Wilhelm Scotese, intorno agli anni ‘40, fotografia

La sua foto più bella (fig. 1) ha un’inquadratura obliqua e uno sfondo nero. La giovane donna, bellissima e raffinata, volge lo sguardo sognante in alto, verso un punto indefinibile. E’ un viso inconfondibilmente slavo, con quegli zigomi alti e quei grandi occhi chiari ombreggiati dalle lunghe ciglia. Sulle spalle nude è scritta a mano una dedica “Al mio ado[rato Sc]ot tu[tta la] mia vita con [tutto] il mio amore. Wicky”.

Dunque in realtà non guarda. Pensa a un invisibile amante e gli offre la sua bellezza come un dono: per gli anni a cui si può attribuire – intorno agli anni ‘40 del Novecento –  la fotografia si potrebbe anche dire piuttosto osée. Ed è indubbiamente opera di un fotografo di talento: potrebbe essere il ritratto di una diva, il manifesto di un  grande film romantico. Ma per quanto ne sappiamo la giovane ritratta non ha avuto mai velleità d’attrice.

E’ un’artista.

Wicki Wilhelm nasce a Bucarest il 20 dicembre 1910, figlia di un ingegnere tedesco e di una romena giovanissima, che egli aveva conosciuto e poi sposato nel corso di un suo lavoro in Romania. La sua famiglia non è soltanto agiata, ma anche di nobili frequentazioni, ricevuta a corte dal re Michele.

Fin da giovanissima, manifesta tendenze artistiche che la inducono a frequentare l’Accademia di Belle Arti di Bucarest; presto si segnala per gli ottimi risultati e la citano come una giovane promessa.

Nel 1932, dunque a 22 anni, Wicky, armata di una grande passione per l’arte italiana e di tanto coraggio, lascia il paese natio per Roma. L’Urbe l’affascina per il suo passato e forse anche per il suo presente. Si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Roma: otto anni di studi, prima di pittura e poi di decorazione,  in un ambiente vivace, in cui si agitano i fervidi stimoli di quella “scuola romana” la cui formula (“jeune Ecole de Rome”) nasce proprio in quegli anni (1933), coniata, com’è noto, dal critico George Waldemar in occasione di una mostra francese dedicata a giovani pittori romani, alcuni dei quali destinati a un grande avvenire: Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli ed Ezio Sclavi. Pittori impegnati a difendere la tradizione dell’arte italiana, ma rileggendola in una cifra attuale e moderna. Ricorrendo a un’espressione cara agli storici del teatro, il grande repertorio del passato si potrebbe dire ora concepito come il prezioso serbatoio per le nuove ispirazioni: come il “magazzino del nuovo”.

Entra in sintonia particolare con due dei suoi docenti e con le loro opere: con la sofferta carnalità di Alberto Ziveri (per lui si è evocato il nome di Caravaggio) e con i diversi orientamenti di Ferruccio Ferrazzi (un disegno di Wicky lo ritrae con dedica al “mio carissimo maestro”); per esempio con quelle sue salde  e nude campiture spaziali, alla maniera di Piero della Francesca; quel “Piero”, studiato in quegli anni da Roberto Longhi (1927), che appare a molti come il grande nume tutelare del movimento.

Anche a Roma la giovane artista emerge subito, espone a mostre, vince premi.

A una festa per il conferimento di uno di questi premi, conosce Giuseppe Scotese, già regista di talento oltre che pittore, più giovane di lei di sei anni. E’ il grandissimo, unico amore della sua vita: eccolo, il dedicatario della fotografia. Che pure la amerà sempre, ma come usa fare un certo tipo d’uomo, lasciandosi amare; proiettato com’è, sempre e anzitutto, verso lontani e impossibili orizzonti di gloria. Lo sposa, appena diplomata, nel 1942 e ne ha due figlie, Giulietta e Graziella, anche quest’ultima sarà un’artista[1].

Vanno ad abitare in via Margutta, una stradina breve, ma importante. E’ uno dei luoghi deputati della Scuola Romana e l’arte si respira a ogni passo: sono tanti i pittori che vi abitano. Con Giovanni Omiccioli, Umberto Mastroianni, Giulio Turcato, Pericle Fazzini, Luigi Montanarini, Vittorio Cusatelli, Maria Pia Della Valle, Assen Peikov e Amerigo Tot, la giovane coppia ha frequentazioni continue e quotidiane.  Impossibile definire influenze e intrecci. Uno dei primi film di Giuseppe, Le modelle di via Margutta (1945), girato con la partecipazione di vari artisti, tra cui alcuni di quelli citati, descrive questa particolare antropologia fatta di ambizioni deluse, di amori traditi, di stenti, di entusiasmi e di lacrime. Il portone e il cortile del film defiscono i limiti di questa vita quasi comunitaria: sono quelli dell’edificio abitato dalla famiglia Scotese, il numero 51 A, lo stesso edificio in cui otto anni dopo saranno girate alcune scene di Vacanze romane. Anche la loro vita è vita di artisti: per Giuseppe nulla è mai definitivo né sicuro, gli alti e bassi sono normalità, i lunghi viaggi una costante.

In questa situazione precaria e altalenante si ha l’impressione che il vero sostegno e la vera continuità della famiglia sia rappresentata proprio da Wicky.  Le figlie e il genero ne ricordano l’allegria comunicativa, il carattere generoso e ospitale e l’eleganza raffinata, gli abiti disegnati da lei stessa. E ricordano anche l’assiduo e appassionato lavoro dell’artista.

Di questa sua attività, che andrà diventando sempre più richiesta, non è facile delineare sviluppi o fasi, privi come siamo della massima parte della sua produzione, dispersa fra i tanti committenti, e anche, spesso, di datazioni sicure su quel che possediamo. Mi limito dunque a dare alcuni elementi per cominciare a conoscerla, lasciando a studi successivi l’incarico di ricomporne l’opera in maniera più esaustiva.

Pittrice della Scuola Romana, perché la formazione e i contatti avvengono in quel clima. Ma Wicky ha un’autoconsapevolezza forte e probabilmente non si riconoscerebbe in un gruppo o in una formula. E del resto il movimento si qualifica proprio per l’estrema libertà riconosciuta ai suoi membri. In quello che si sarebbe voluto lanciare come il suo Manifesto, firmato dai pittori Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli  e Roberto Melli nell’ottobre del 1933, il primo periodo  suona così:

Noi crediamo che il principio plastico italiano, naturalmente, sia il principio plastico trascendentale”; e l’ultimo:  Dal colore si deve tutto trarre ma il risultato non è colore: è un fatto vivente.

Principi molto generali da cui emerge sicura la volontà di distaccarsi sia dalle frammentazioni dinamiche futuriste, sia da una pittura estemporanea, legata alla mera riproduzione di oggetti o persone. Ma il Manifesto, concepito perché fosse firmato da tutti gli aderenti al movimento, in realtà non poté diventare un punto di riferimento comune, essendo essi in realtà non solo di tendenze quanto mai diverse, ma anzi volutamente, ecletticamente aperti ad ogni più libera espressione.

Wicky è pittrice figurativa, mai tentata da avventure astratte o nebulose, ritrae qualsiasi cosa che la ispiri, paesaggi, case, fiori, ma soprattutto donne e uomini.

Parte da un bozzetto a carboncino sulla tela, dato con mano sicura, senza mai cancellare; poi stende il colore a olio con pennellate materiche. Sono spesso colori forti, ma intesi in senso tutt’altro che pittoresco o decorativo. Colori di sostanza, i cui accostamenti sono suggeriti da quelli reali e che spesso smarginano le linee all’esterno. Colori che assorbono luce, che creano atmosfere; e costruiscono spazi e volumi. Guardando le sue opere (specialmente alcuni paesaggi: fig. 7), viene alla mente Mario Mafai. Ma è solo un’idea.

Dipingendo per lavoro, Wicky si specializza nel ritratto, più spesso femminile: una contessa ungherese, una signora inglese, personaggi importanti e danarosi glielo richiedono.  Una signora di La Spezia con un medaglione al collo e l’aria assorta e serena (fig. 2), una fanciulla seduta con espressione troppo seria (fig. 3), una giovane donna in biblioteca[2];

c’è anche un autoritratto con un fiore in mano (fig. 4); tutti contro sfondi neutri o appiattiti che aiutano a convergere l’interesse sul soggetto ritratto.

4. Autoritratto con anemone, olio su tela,1935-40 ca

Come è facile dire in questi casi, è evidente uno studio psicologico. Ma l’interesse di Wicki è anche materiale e carnale; si direbbe anzi che parta dai segni del corpo per giungere al profondo.  Quando un’attrazione improvvisa fa scoccare la scintilla creativa, Wicki è capace di fermare sconosciuti, magari con un che di esotico, attori falliti che però hanno quel “qualcosa” di più, chiedendo loro il favore di ritrarli gratuitamente. La specializzazione dell’artista risponde dunque a un reale interesse per la figura umana nella sua interezza e nella sua complessità; soprattutto in quel tanto d’intimità che si manifesta attraverso i segni del corpo.

Ci sono quadri di paesaggi, di una natura quasi sempre modificata dall’uomo. Paesi arrampicati sui monti (fig. 5), paesaggi romani visti da prospettive inconsuete (fig. 6),

trionfi di fichi d’India contro muri con i panni appesi ad asciugare.

E quel loro terrazzo di via Margutta con la vista dei due campanili della vicina chiesa ortodossa di sant’Atanasio (fig. 7); e quel loro cortile, addobbato per la mostra… (fig. 8)[3]

I cieli sono per lo più nebbiosi e le prospettive volutamente distratte; ma la materia vi è solida e  chiaramente leggibile. Nell’arte di Wicky si sentono insieme l’eredità del cubismo e la forza della nostra tradizione. La forza di un’arte ancora sentita come imitazione e insieme l’aspirazione ad asciugarne i tratti, a renderli essenziali e moderni.

Nella rappresentazione dei fiori è possibile immaginare un’evoluzione da una maniera più fedele, calligrafica e decorativa (fig. 9) a un’altra del tutto diversa: quelle bellissime strelitzie (fig. 10) che, pur nella preoccupazione di fedeltà, non sono riunite nella visione consueta del mazzo, paiono animate.

Ogni fiore è autonomo, le linee spezzate e divergenti: riescono ad esprimere insieme bellezza e tormento.

Come molti di quegli artisti, Wicky rivaluta il disegno, così importante nella tradizione italiana. I suoi sono disegni dal segno sottile e minuto (figg. 11, 12 ),

13. Autoritratto allo specchio, matita su carta, con scritta “Mariazell 19 agosto 1957”.

o anche schizzati con sicurezza (fig. 13); e si cimenta anche con le lastre di rame.

Una di queste (a punta secca), raffigurante un uomo seduto su una panchina, ha tutto intorno alcuni suoi scritti a matita. Essendo per lo più pensieri attinti da grandi artisti, potrebbero essere appunti presi negli anni dei suoi studi all’Accademia; anche l’incisione potrebbe essere un esercizio di quel periodo. Ricopio le frasi fedelmente.

“La realtà è un frastuono di cui l’arte deve fare un’armonia. / Questo sol m’arde e questo m’innamora. Michelangelo / La natura parla all’artista la eterna parola: amare, amare. / Amore e vita canta la terra in primavera e l’anima delle cose si ridesta da Sigantiti [Segantini?] / La vita insegna ad essere meno severi verso noi e verso gli altri. Goethe / Il sapere e la ragione parlano, l’ignoranza e il torto urlano. / Se vuoi esser pittore lascia da parte ogni tristezza, ogni preoccupazione e non curarti che dell’arte. / Sia la tua anima come uno specchio nel quale si riflettono tutte le cose, tutti i movimenti e i colori pur rimanendo calma e serena. Leonardo da Vinci”.

Wicky scrive di armonia, di calma, di serenità e soprattutto d’amore; non è l’unica, anche i suoi maestri, Ziveri e Ferrazzi,  scrivono cose simili. E ci si domanda da dove questi artisti traggano la forza di scrivere così in quegli anni terribili.

Anni di guerra e di fame. E la coppia Scotese rischia di pagare il prezzo più alto.

Prima il fascismo poi l’occupazione nazista mettono lei e il marito a dura prova, essendo entrambi (specialmente lui) nettamente antifascisti. Giuseppe viene preso in una retata, rinchiuso in via Tasso e, dopo l’attentato di via Rasella, destinato a essere fucilato. Sarà la strage delle Fosse Ardeatine: tutti i prigionieri di via Tasso, più altri presi da Regina Coeli, saranno sterminati in numero perfino superiore a quello della rappresaglia. Wicky non esita, va a parlare con il comandante tedesco di via Tasso, lo supplica di risparmiare suo marito. Probabilmente non sono più gli anni della fotografia, ma lei, benché rifinita dalla fame, è ancora bellissima.

Possiamo immaginare il suo fascino languido e dolente, le preghiere, le lacrime, forse qualcosa di più; forse è una Tosca a lieto fine; oppure, più probabilmente, il comandante sa essere un gentiluomo con una donna di quello stile, che oltretutto porta un cognome tedesco. Fatto sta, il nazista le concede la grazia. Giuseppe è libero. Debole, provatissimo, ma è libero. Una fotografia di quei giorni, spesso ricordata dai superstiti ma oggi perduta, li ritrae insieme, entrambi – ovviamente lui di più – al limite delle forze.

Poi, finalmente, la fine dell’incubo, la Liberazione.

14 Wicky a una mostra (forse collettiva), anni ‘45, fotografia
15. Sfilata di alta moda all’hotel Excelsior, olio su tela, 1960 ca

Il dopoguerra è radioso di speranze, il paese risorge. La fama di Wicky come pittrice professionista (specie come ritrattista) è ormai salda (figg. 14, 15). Anche Giuseppe raggiunge una certa notorietà; ma a un film di successo (anche commerciale) come America di notte (1961), ne succedono altri, considerati meno riusciti. Il suo film più importante, Pane amaro (1968), è molto più di un docufilm (come si direbbe oggi), è una coraggiosa panoramica sulla fame nel mondo che lo porta nei più remoti angoli della terra: oggi meriterebbe davvero di essere meglio conosciuto. All’epoca, benché presentato a festival prestigiosi ed esaltato da molti critici, è una perdita economica secca e finisce per danneggiarlo. Anche se amareggiato da questo ed altri fallimenti, Giuseppe continua con ostinazione, tra difficoltà crescenti, a girare film, inseguendo il sogno di un successo e di una fama che continueranno fino alla fine a sfuggirgli.

Nel 1970, per le riprese di La lunga notte della violenza girato ad Almería (Spagna), Wicky riesce finalmente ad accompagnarlo. Non è più la donna nel pieno fulgore della sua bellezza ritratta nella fotografia. Soffre di cuore anche in senso lato, non sentendosi amata dal marito pienamente, totalmente, come lei sa amare.

Quando il 26 novembre cade riversa in strada senza documenti, nessuno, in quella città spagnola, la può riconoscere. Giuseppe la rintraccia morente in un ospedale.

Elena TAMBURINI  Roma  28 febbraio 2021

NOTE

[1] Da alcuni colloqui con lei e con il marito di Giulietta (venuta a mancare una decina di anni fa) ho derivato queste note biografiche. Con l’aiuto particolare di Graziella ho potuto riconoscere opere di Wicky non firmate (ma lo sono quasi tutte) e ho messo le ipotetiche datazioni; ma se manca il circa, significa che l’opera è datata dalla stessa autrice sul quadro. Aggiungo che le opere qui pubblicate sono tutte di proprietà privata.

[2] Donna in biblioteca, quadro a olio, firmato e datato 1940. Indicato nel catalogo solo come opera di un “Pittore Nord Europeo del Novecento”, è stato recentemente venduto: cfr. Asta in Roma, via dei Greci 2A, in “Babuino. Casa d’Aste” 24-26 novembre 2020, p. 177, n. 487.

[3] Graziella osserva che il quadro, datato dall’autrice al 1957, ritraeva una delle prime mostre organizzate in quel cortile, che per l’occasione si addobbava con luci e palloncini colorati. In seguito diventerà una consuetudine annuale.