di Marco FIORAMANTI
Il film, prodotto dal regista stesso – girato in 3D (per chi ha avuto la fortuna di vederlo) e risoluzione 6k – si apre con un lungo piano sequenza in esterni, in un campo brullo con ulivi alcune statue antropomorfe acefale dai lunghi vestiti bianchi – i cui drappi scendono a terra trasformandosi in bianchi rami, forse ossa umane – che sussurrano parole… Vogliamo essere quelle senza nome, quelle dimenticate, ma noi non dimentichiamo nulla.
Improvvisamente ecco il sorgere del sole, a ricordarci, racconta l’artista, che
le macerie rappresentano non solo la fine ma anche l’inizio. Le macerie sono come il fiorire di una pianta, il culmine radioso di una incessante metabolismo, l’inizio di una rinascita.
Subito dopo ecco il protagonista all’interno di uno dei suoi hangar nel suo atelier di Croissy-Beaubourg mentre, “lillipuziano” in bicicletta, si aggira tra le sue opere monumentali.
Opere che fanno ora parte di un nuovo micro/macrocosmo, la sua città ideale, Barjac, nel sud della Francia, creata dal nulla o quasi, “un vecchio setificio con una villa in pietra e vari fienili” e decine di ettari di terreno. Opere che non vengono raccontate attraverso una cronologia ma da continui flash-back nei quali storia e mitologia sono avvolte da un afflato magico di poesia e canto lirico.
Concorrono alla maestosità del documentario le interviste in tempi diversi all’autore, le musiche di Leonard Küßner, le voci – sussurrate lungo tutta la durata del film – delle parole del grande poeta Paul Celan (rumeno di origini ebraiche e lingua tedesca) e del suo maestro Joseph Beuys da cui in realtà l’artista eredita soltanto l’aspetto performativo, scenografico-teatrale, operando totalmente in solitaria e dissociandosi profondamente dall’ottica di un’arte sociale.
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera / lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte beviamo e beviamo / scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti / Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive / che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete / lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai / suoi mastini / fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra / ci comanda ora suonate alla danza. […]
(da Totesfuge, Fuga di morte, 1954)
Il docu, a mio avviso, invece che Il fumo del tempo avrebbe potuto chiamarsi Anselm, ovvero il senso di colpa, quello da cui sia l’autore che il regista non riescono a distaccarsi. Anselm, l’angelo caduto, quello della Storia, l’Angelus Novus benjaminiano di Paul Klee “dagli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese” col viso rivolto al passato davanti a un’unica grande, immensa catastrofe, con rovine su rovine davanti a sé. È infatti questo che Wenders documenta, mostrando splendide immagini delle opere in esterni, o sotto grandi serre, altre ipogee, tutte girate in un tubinìo di scene dell’artista in azione, col colore, con la terra, col fuoco. Un Anselm costretto a sovrapporsi a se stesso in un trapassato futuro. Un Anselm coi ricordi d’infanzia dai quali il regista decide di “proiettare” nel futuro gesti e intuizioni del Kiefer bambino. Operazione, a mio avviso, punto debole, in chiave drammaturgica – vista nell’imperiosità del corpus generale dell’opera.
Se ripenso, infatti, al Cielo sopra Berlino [ho visto girare in diretta la scena dei due angeli nell’autosalone a Pariser Platz, ndr], mi viene da pensare che quando un artista (un regista, nel caso specifico) fosse riuscito nella realizzazione di un opus magnum, dovrebbe trattenersi dal riprodurre opere “in stile”. Per raccontare la biografia – storia, percorso, simboli e macerie – dell’amico “Anselm”, perché ricalcare i tratti pertinenti di una propria drammaturgia, quella di “quando il bambino era bambino” (Als das Kind Kind war), dei magici versi di Handke del cielo berlinese? E ritorno sul Kiefer bambino (interpretato dal nipotino del regista) che anticipa se stesso nel futuro in un campo di girasoli, disteso a terra col fiore ritto sul petto a seguire con la stessa scena presentata nel quadro trionfante del Sol invictus del 1995. Ciò non distoglie naturalmente dalla grandezza dell’artista che ha inteso “ridurre” il mondo a una dimensione, quella iniziatica, primordiale, alchemica.
Seppure alcuni suoi detrattori, come l’americano Arthur Danto, a seguito delle sue infinite citazioni legate a miti babilonesi, egizi o nordici, continuano a vederlo
“come un impostore, protagonista di una wagneriana musica guerrafondaia, che confonde l’oscurità con la profondità”.
Di certo Kiefer è un cantore della condizione umana, figlio – come il regista – della cultura tedesca; un artista che, in solitudine davanti all’abisso, ha scelto di operare con la maestosità dei gravi per cogliere il pro/fumo del tempo e, forse, un accenno di anelito alla leggerezza.
Marco FIORAMANTI Roma 26 Maggio 2024